lunedì 22 giugno 2009

Che fare




Decide di accendersi una sigaretta. E sì che non ha mai fumato. Ma è bello il gesto, la mano sinistra che sfiora la bocca, le labbra che si muovono per accogliere quell’oggetto lungo e rotondo, il pollice destro che sfrega la rotella dell’accendino. Solo che l’accendino non funziona. Vinicio lo scaglia con forza a terra, gli tira un calcio, l’accendino si infila sotto l’armadio, al sicuro da altre ritorsioni. Va a farsi un caffè in cucina, la casa è incredibilmente silenziosa, gli inquilini sono usciti tutti, chi a lavorare chi a studiare, nel palazzo nessuno ascolta musica o sposta mobili, se non fosse per il frigo si potrebbe pensare che non ci sia vita nell’universo, che il mondo si sia improvvisamente rotto. Il caffè è finito. Ed è inevitabile, dato che tutti lo bevono e nessuno lo compra. Vinicio bestemmia piano, con metodo. Raccoglie gli ultimi granelli del barattolo, li preme nel filtro, passa il dito sul vetro del contenitore per raccogliere le ultime particelle nere di polvere, ma è ridicolo, la caffettiera è ancora vuota, non ce n’è nemmeno per farsi una mezza tazzina. A fatica riesce a ricacciare l’impulso di scaraventare il barattolo fuori dalla finestra.
Prima prova della giornata. Che fare adesso? Fare la doccia, vestirsi. Uscire, andare a comprare qualcosa. Accendere la tv, andare al cesso. Fumarsi un’altra sigaretta. Ammazzare qualcuno. Andare a ricercare Chiara, magari picchiarla, investirla con la macchina. Oppure accendere il computer, controllare la posta. Torna in camera, rassegnato. Si siede davanti al Pc, preme con forza il tasto dell’accensione. Il computer ronza in modo poco rassicurante, diventa nero poi blu poi grigio, ogni giorno che passa ci mette sempre di più a caricare la schermata iniziale ma poi alla fine ecco, il jingle rassicurante di windows, la luce bianca e imperturbabile di google. La posta elettronica. È come un film porno, come un nuovo amore: ogni volta speri di trovarci qualcosa di nuovo ed eccitante, novità imprevedibili, e invece ci trovi sempre e solo le solite cose, ripetute all’infinito, ogni tanto riverniciate e spacciate per novità. Anche oggi. Pubblicità, inviti. Un sito che promette di trovare un posto di lavoro a chiunque si iscriva e immetta i suoi dati lo sta riempiendo di mail, offrendogli occupazioni sempre più improbabili. E sì che lui ha selezionato con estrema cura le qualifiche e le richieste. Giovane, laureato in lettere, cerca lavoro in redazioni, giornali, riviste, editoria in genere. E invece gli propongono di andare a fare il cuoco alle Bahamas o di pulire i cessi in Calabria. Anche oggi stessa storia. Telefonista a Cuneo, meglio se diplomata. Ma lui odia il telefono. E non ha nessuna intenzione di andare a Cuneo. E tra l’altro lui, incidentalmente, non è affatto una donna, e anzi da un po’ di tempo le donne le odia e le disprezza con furore crescente. Altre due mail. “Allunga il tuo pene. Prestazioni indimenticabili”, c’è scritto. Ma le sue prestazioni indimenticabili sono già state dimenticate, a quanto pare. L’altra mail lo invita ad andare praticamente gratis in Sudafrica, una vacanza da sogno per due persone, per due settimane, con due comodi clic si prenota tutto. Due, due, due. Il mondo sembra ragionare in coppia. E quando l’uomo ha inventato un altro mondo, un altro sistema di ragionare e di fare le cose, che cosa ha tirato fuori dal cilindro? Come ha organizzato il tutto? Un sistema binario. E ti pareva. È che proprio non gli entra in testa, all’umanità: infinite possibilità di organizzarsi, di plasmare il mondo e gli uomini, eppure non se ne esce. Sistemi binari ovunque. Uomo e donna, non si scappa, uno e due. E il bello è che Vinicio se l’era pure trovata una donna, l’uno che completava il suo zero e metteva in moto il sistema binario. Chiara, amica dell’università, compagna di letture, di letto, di libri e di bicchieri di vino. Tutto perfetto fino alla laurea. Il giorno più importante, genitori commossi, Chiara in lacrime, regali e pacche sulle spalle. E poi Vinicio che cerca lavoro, che lo trova, che lo perde. Si rifiuta di prendere una sola lira dai suoi, si sente grande e pronto per il mondo, controlla il conto, i soldi sono pochi, l’affitto è alto, i lavori saltuari. Lo studio chiude, un piccolo spazio privato in cui gli davano mille euro, qualche risata e molte ore di lavoro. Chiuso lo studio, il conto si assottiglia, volantinaggi e babysitteraggi. E in tutto questo l’amore di Chiara che dimagrisce in perfetto sincrono con il conto, niente più cene, niente più concerti, niente più vacanze di tre giorni a Berlino come quando pagava papà. Ma lei diceva che gli sarebbe stata accanto sempre e comunque: “ricordati le mie parole, qualunque cosa succeda, se diventerai un barbone o un miliardario, per me non cambierà mai nulla, sarai sempre mio, sarò sempre tua”. Lui se l’è ricordate le sue parole, se le ricorda pure adesso. Lei invece se l’è scordata in un paio di mesi. L’idea di tirare la cinghia non la fa impazzire, evidentemente. Gli ha chiesto di accompagnarla a un festival di cinema a Bologna. Lui ha controllato il conto e ha detto che non poteva. Gli ha proposto di andare in settimana bianca con amici. Lui ha controllato il conto e ha detto che non poteva. Gli ha ricordato che il giorno del loro anniversario era vicino, forse era il caso di prenotare in un bel ristorantino, lui ha dato un’occhiata al conto e ha concluso che forse era meglio una pizzeria. E a quel punto lei si è ricordata di un loro amico, Gianni, da sempre innamorato di lei, da sempre figlio di un padre ricchissimo. Adesso stanno insieme da due mesi. E sono felici, a quanto si dice. Vinicio controlla il conto e conclude che non c’è proprio nulla di cui essere felici. Si accende una sigaretta. La terza. Non male, per uno che non fuma e non può nemmeno permetterselo. In quell’istante sente un terribile rumore dal Pc. Come se un sassolino stesse rotolando tra i circuiti e cadesse pian piano sul fondo dello schermo. Alza gli occhi sul monitor. Nero. Vinicio respira a fondo. Eccolo il secondo, gigantesco “che fare” della giornata. Prova a premere il tasto dell’accensione. Niente. Riprova. Niente. È finito pure il suono. È finito tutto. Il computer è andato. La sigaretta si è spenta. Ma l’accendino non c’è, è ancora sotto l’armadio, e i cerini sono finiti. Morde con troppa forza il filtro dell’accendino. La carta si rompe, il tabacco si rovescia su tutta la scrivania. Un bel casino. Vinicio sente qualcosa che gli risale dallo stomaco, gli passeggia su per il tubo digerente, gli si rovescia in gola, lo costringe a spalancare la bocca, lo spinge a urlare. La rabbia. Così forte che invade ogni spazio, riempie e calma il suo animo, si sostituisce a tutti gli altri sentimenti, si fa perfetta. E all’improvviso Vinicio capisce tutto. La verità lo assale con una chiarezza quasi imbarazzante, con una evidenza assoluta. E finalmente sa, comprende che tutto fa parte di un piano unico, che tutto si regge insieme, che ogni cosa è conseguenza e causa di un’altra. A cominciare dal suo nome, Vinicio Ignazio Lentini, così esageratamente lungo e spocchioso, così inadatto a lui. E poi il suo computer, i soldi buttati nel cesso, il datore di lavoro che assorbe un altro studio, ristruttura l’organico, come dice lui, e ti ritrovi in mezzo alla strada, Chiara che promette amore eterno e si scopa un altro, le sigarette non fumate e il gas finito nell’accendino: niente è casuale. Ogni singolo anello costruisce una lunghissima catena, così lunga che non riesci a vederla, così lunga che non puoi neanche immaginarla, è quasi impossibile credere che esista. E invece la catena c’è, e pian piano ti si lega intorno al collo, e stringe. E Vinicio capisce che il suo obiettivo da oggi in poi non potrà essere che quello di liberare se stesso e magari gli altri dalla catena, da ogni singolo anello, dalla scia invisibile che si stringe ogni giorno di più.
E all’improvviso capisce che fare.
Sandro

giovedì 18 giugno 2009

Le passanti


LE PASSANTI

Mi avevano preso per pazzo. Un pazzo, sporco, puzzolente e persino dissidente.

Sono stato in carcere quindici anni per questo. Carcere e non manicomio dove curare la mia follia. I matti, i delinquenti, i criminali. Tutti la stessa cosa, tutti da legare e rinchiudere al buio.

Dettero fuoco allo studio dove facevo il pittore. Puzzava come me, con il mio stesso odore di irrazionalità. I miei colori, le tele e i pennelli erano stati puniti in modo esemplare dal fuoco. La vecchia tradizione di bruciare gli untori e le streghe.

A me però non mi volevano morto, ma in galera, chiuso, legato, vinto. Dovevo muovermi e lavorare a comando, dovevo ubbidire. Volevano farci diventare tutti uguali, remissivi, ubbidienti. Dovevo pensare come pensavano gli altri, agire come agivano gli altri. Dovevo annullarmi. Chiamavano l’apatia normalità, perché era più facile da comandare, da ordinare.

Fu un medico un giorno a chiedere di scagionarmi: “Perché tenete legato questo qui? Non è mica un criminale, è un povero pazzo, un povero malato di mente. Scioglietelo!”. Ma neanche lui era più illuminato degli altri e sperava che di nuovo con il corpo libero mi sarei convinto a fare il servo. Domata la mia originalità, sperava che non sarei più stato una minaccia.

Io non ero arrabbiato, eppure sentivo l’urgenza di vendicarmi. Il modo migliore per farlo era ignorarli, sottrarsi al controllo, alla manipolazione, alla collettività. Sottrarsi persino alla lotta violenta delle parole, degli scontri, delle manifestazioni. Essere indipendente, restare indipendente.

Mi avevano braccato in strada e in strada tornai. Dietro ai cassonetti, a raccattare i vetri, i fondi di bottiglia, le latte di alluminio, strisce di stoffa e cordicelle resistenti. Nei cantieri prendevo un po’ di catrame. E gli scarti messi insieme in modo diverso diventarono una fotocamera. Qualche anno prima Picasso aveva fatto una testa di toro con un sellino e un manubrio, mi aveva suggerito questo modo di fare, forse.

Fotografai. Imprimendo le figure come fa la luce negli occhi.

Erano immagini di donne. Quelle che amavo e accompagnavo per tratti di vita, fino al momento di separarsi, lasciarsi andare ad altre avventure, senza dimenticarsi, senza seguirsi.

Ho fotografato le donne che dopo il piacere dell’orgasmo mi hanno reso libero. Restavano qualche attimo nude con il pensiero annebbiato, come se la mente si fosse diluita nell’acqua e avesse trovato una sensibilità diversa, e la pelle luccicava di piacere. Poi si rivestivano, in quel modo timido ed elegante da costringermi a desiderarle di nuovo.

Quelle stese al sole di un parco cittadino consapevoli della loro bellezza. Si muovevano come prestigiatori, misteriose anche nell’atto banale di bere un liquido dolciastro dal collo di una bottiglia.

Erano donne che buttavano la spazzatura, con la soddisfazione di aver eliminato il vecchio.

Le coglievo mentre scendevano dai treni. Accaldate e spettinate, coraggiose.

O pedalando su una bicicletta e i seni, anche se piccoli, incapaci di stare fermi.

Mentre si voltavano al richiamo di un’amica e avevano l’espressione della sorpresa, della meraviglia. Mi sembrava preziosa, un ricordo utile nei momenti di nostalgia.

Ho fotografato una donna magra, mora, indipendente. Non aveva paura di stare da sola.

L’ho incontrata di nuovo. Aveva le gambe accavallate, ha condiviso con me tre anni di vita. A lei ho dedicato i migliori scatti, forse perché l’avevo capita. Ci siamo dovuti dividere, come a volte succede per non diventare trappola che limita l’altro. Ma non l’ho scordata. Le impronte delle mie dita sulla stampa volevo che fossero per lei: quando l’ho vista emergere dagli acidi di sviluppo e c’ho immerso le mie mani per tirarla fuori da lì, ho pensato che lei avrebbe apprezzato che le mie impronte sarebbero ormai rimaste indelebili.

Ho imparato tutto dalle donne. A guardare e vedere.

Ho imparato soprattutto quanto fossero inconsapevoli della loro importanza per gli uomini, totalmente ignare del fatto che la loro imperfezione ci costringe a essere uomini. Solo per questo motivo le ho potute fotografare senza paura. E loro hanno giocato leggere.

Adesso vivo in una capanna nel bosco, sebbene mi abbiano offerto appartamenti luminosi. Vivevo qui anche prima del carcere e molto prima di diventare conosciuto per i ritratti.

Un giorno il postino li ha visti e mi ha reso un fotografo famoso. Ora lui non fa più il postino e io ho l’acqua calda in casa. Ne avevo bisogno.

Hanno allestito mostre nei musei più illustri con i miei scatti. La mia macchina fotografica è stata messa in una teca e a lungo è stata ammirata come segno delle potenzialità umane. Hanno avuto il piacere di scoprire che anche se si è poveri e sconosciuti si può avere una coscienza del proprio valore.

Qualcuno si è anche commosso di fronte a quelle immagini non del tutto definite di corpi e movimenti. Qualcun altro ha voluto di nuovo pensarmi pazzo. Un guardone. Un ossessivo. Un ciarlatano. Sostengono che scatto troppe foto al giorno e aberrano il fatto che il mio unico soggetto siano le donne; così come disapprovano che non le metta in posa, ma che come un ladro io rubi i loro sguardi. A questi signori non ho mai voluto dare delle spiegazioni, non credo di averne; ho fatto quello che mi sembrava più naturale fare. A volte però provo per loro compassione.

So che in giro mi chiamano Tarzan. Forse per la barba incolta. Credo che abbiano ragione a chiamarmi così: come lui non ho mai avuto né madri né padri.

Ho ottantatre anni e hanno smesso di invitarmi alle mie mostre, non amo autocelebrarmi. Anche se sono un riconoscibilissimo barbone non ho voluto arricchirmi con il mio lavoro, solo il necessario per soddisfare i bisogni materiali, ma niente di più; non voglio confondermi e rischiare di diventare folle davvero.

Spesso cammino senza meta, senza scopo.

A volte ho ripensato al carcere, ma più spesso ho ricordato i miei settantasette anni, quando di nuovo mi sono innamorato. Era una donna che leggeva parole arabe, a me sembravano suono e più del significato delle sue poesie mi sono lasciato andare a quel canto sussurrato e alla spalla destra scoperta per il troppo calore.

Posso dire di essere un uomo calmo e, a modo mio, credo di averla indovinata la vita.

Ancora oggi, per esempio, continuo ad avere la sensazione di dover cercare qualcosa, di non aver finito di scoprirla.

Lisa

(liberamente ispirato a Miroslav Tichy)

mercoledì 27 maggio 2009

Nulla è sicuro, ma scrivi

Le aveva detto che l’amore era bello, ma non si poteva fare sempre.
Era stata un’estate di letti accaldati, lenzuola sudate, docce fredde e leggerezza.
Lei avrebbe voluto rispondere: “sti cazzi”, ma poi aveva solo sorriso.
Mesi dopo pensò che lo stesso si poteva dire della scrittura.
Non la si può fare sempre.
Non la si può fare sempre nello stesso modo.
Lisa

In Italia non c'è dittatura, c'è idiozia


Dal Corriere della Sera, 26/05


NOTTE AL MUSEO 2, VIA LA BATTUTA ANTIPREMIER

Berlusconi resta pronipote di Napoleone (nella foto Stiller con Chabat), ma ora "tout le monde lo ama": è cambiata la battuta nel film Notte al museo 2, che secondo una prima anticipazione recitava "c'è pure chi lo ama". A darne notizia è sempre Tv sorrisi e canzoni, che aveva anche raccontato la precedente versione. "Ho tanti discendenti in Italia- dice Bonaparte nel film - Uno di loro è alla mia altezza, è un pezzo grosso, è un uomo molto potente e spiritoso... Una volta cantava sulle navi". La battuta seguente sarebbe quella cambiata. La versione pubblicata da Sorrisi la prima volta risulta però da un documento ufficiale: la lista dialoghi usata dai doppiatori. Perchè il cambio? Osvaldo de Santis, presidente e ad della 20th Century Fox Italia, spiega che "la nuova battuta ci è sembrata più carina con quel tout le monde che le dona un aroma francese".

sabato 16 maggio 2009

Il no è diversa dal non

Era arrivato un insopprimibile conato di rifiuto.
Buttato su una poltrona di velluto verde vide tutto ciò che non era più disposto a sopportare.
Sorpassate le questioni di poco conto, restarono chiari i no che avrebbe detto.
Lisa

In Italia non c'è dittatura, c'è idiozia

giovedì 14 maggio 2009

Buoni propositi

Finito Antipolitica, prometto che posterò solo cose brevi e divertenti...
Sandro

mercoledì 13 maggio 2009

Antipolitica/dodicesima parte


L’esempio dei venti spopolò e si diffuse e fu copiato. Le teche di vetro finirono nelle primissime ore della mattina successiva. Tutti volevano dimostrare che erano stati risparmiati dalla morte, che le loro feci erano dure e sane come non mai, che erano gli eletti, degni di seguire i nuovi leader. Il fiume dell’ultima pioggia li aveva risparmiati, perché li aveva riconosciuti, e sapeva che loro non erano immondizia. Finite le teche di vetro, la gente defecò in acquari, vasche, specchi, bicchieri e pentole, si ributtò in strada mostrando a tutti, a vicenda, le proprie deiezioni, vantandosi e confrontandosi, invidiando e ammirando i più begli esemplari. Nuove gerarchie sociali nacquero, altre si infransero, la purezza delle feci era l’unica qualità su cui ormai si poteva fare affidamento per giudicare il prossimo. Vecchi rapporti di potere si ribaltavano alla semplice vista di un materiale organico un po’ molliccio. Alle diciotto la gente iniziò a radunarsi in Piazza del Popolo. Si formò una folla ancora più mastodontica del giorno prima, una folle enorme e ingestibile. Tutti portavano in qualche modo le loro feci con sé. Era un dono che si scambiavano a vicenda, il sacrificio per suggellare un nuovo patto.
Alle venti in punto arrivò il nuovo capo con i suoi diciannove sottoposti. La Nuova Maggioranza con tuniche bianche, la Nuova Opposizione con tuniche nere. Incappucciati e silenziosi, si disposero intorno al nuovo capo, vestito con una lunga e semplice tunica dorata.
Risalì sul palco, che nessuno aveva avuto l’ardire di toccare dal giorno prima, fosse anche solo per pulirlo. Salì sul palco, prese il microfono, e iniziò a parlare. Era Dio, e avrebbe dettato le tavole della legge al suo popolo.
Il suo discorso fu molto breve questa volta, e non ci sarebbe stato alcun bisogno, del resto, di una sola parola in più. Lo spettacolo di venti incappucciati su un palco era abbastanza potente, e sarebbe stata più che sufficiente per qualsiasi pubblico. Disse poche cose, in ordine logico e con calma. Elogiò la saggezza del popolo, che aveva bruciato i corrotti palazzi del potere da cui era partita la furia distruttrice della peste. Elogiò il fuoco che aveva purificato gli immondi luoghi. Elogiò la durezza delle proprie feci. Fuoco e merda, disse. Fuoco e merda, ripeté. Fuoco e merda, ripeté la folla. Fuoco e merda, urlò la folla. Uno degli incappucciati bianchi andò a prendere la teca di vetro del giorno prima, e di nuovo la mostrò alla folla urlante. Uno degli incappucciati neri andò a prendere un bastone con uno straccio avvolto in cima, e lo passò al capo. Il capo prese una tanica di benzina, cosparse di materiale infiammabile lo straccio, e diede fuoco. La folla ruggì. Il capo avvicinò la torcia al legno del palco. Le fiamme iniziarono subito ad ardere. Centinaia di migliaia di persone tornarono in un secondo indietro di migliaia di anni, quando nelle caverne osservavano affascinati bagliori rossi dentro caverne pitturate.
Seguitemi, urlò il capo dentro al suo microfono. Gli incappucciati lo seguirono, tenendo ciascuno bene alta la propria teca. Milioni di persone lo seguirono, con le torce in mano.
Fuoco e merda, dicevano, e davano fuoco a un palazzo.
Fuoco e merda, urlavano, e davano fuoco a una casa.
Era un Dio abbastanza pazzo.
La folla non si saziò che dopo tutta una notte di incendi.
Roma bruciava. Non un solo edificio era rimasto in piedi, migliaia erano morti soffocati, migliaia erano morti bruciati.
L’Italia bruciava, il fuoco non si poteva più controllare, tutta l’acqua di tutti gli aerei antincendio non avrebbe potuto nulla contro il mostruoso disastro incandescente.
I pochi ancora in vita gioivano e gridavano esaltati.
Finiva così una grande città.
Finiva così un grande paese.
Fuoco e merda.

sabato 9 maggio 2009

Antipolitica/undicesima parte


Parlò di molte cose, e la sua voce era forte e chiara, e il microfono non la storpiava, e tutti la potevano sentire. Disse che in Italia era tutto marcio, che tutto era sbagliato, che la merda era piovuta dal cielo come un dono, che il fiume di immondizia era come l’ultima pioggia, la più sporca, quella che fa esondare i fiumi e raccoglie tutti i rifiuti, e appesta i paesi con le sue tracimanti limacciosità, e a tutti sembra impossibile che quello sporco se ne possa mai andare. Ma il fiume dell’ultima pioggia poi si ritira con il caldo, e porta via tutto con sé, torna pulito nel suo letto. E l’immondizia è sparita. Usò metafore belle ed efficaci, stregò il suo pubblico, portò la folla all’esaltazione. Disse che non era un caso l’ordine con cui la morte marrone si era abbattuta sugli uomini, lasciando vivi gli uni, e svuotati e in decomposizione gli altri. Citò la bibbia, espose ricordi di sangue d’agnello e di case di primogeniti, e di angeli sterminatori. Disse che non era un caso se tutte le figure di potere erano state spazzate via dal fiume dell’ultima pioggia. Disse che non era un caso se in Parlamento erano morti tutti, tranne loro venti. I più puliti, i più inesperti, quelli che meno si erano potuti e dovuti sporcare le mani con la sozza fanghiglia degli accordi sottobanco. Parlò, sempre seduto nudo davanti a tutti, e nessuno pensò che quella fosse una posizione ridicola, e nessuno gli mancò di rispetto. Finì il suo discorso. Lo stimolo fatale arrivò proprio in quel momento. Con un leggero sforzo, una contrazione appena accennata dei muscoli, l’apparato digerente del capo effettuò, puntuale e preciso come un orologio, il compito finale con cui terminava tutta la sua lunga fatica. La teca di vetro, ultima discendente di reliquari e scrigni sacri di cui abbonda la storia patria, accolse con entusiasmo i sacri rifiuti. Compatti, solidi, indistruttibili. L’emblema della salute. L’alba di una nuova era. Il capo, con molta dignità, terminò le sue evacuazioni, si pulì con gesti rituali e lenti, chiuse la teca, la sigillò con mosse sapienti. La folla tratteneva il respiro. Alzò la teca in alto sopra la sua testa, e la mostrò a tutti. Centinaia di migliaia di persone esplosero in un unico grido di giubilo. Il capo non aveva più detto una parola, ma era entrato nei loro cuori con più forza che mai. Era un Dio con una naturale predisposizione ai colpi di teatro. Si mise pazientemente ad aspettare, seduto sulla sua teca sigillata. Attese che gli altri diciannove, chi prima e chi dopo, espletassero l’arduo compito per il quale si erano seduti sui loro augusti cessi. Uno alla volta, si pulivano, rilassavano il volto sfigurato dalla tensione e dalla spinta muscolare, sigillavano la teca e la mostravano alla folla plaudente in adorazione. Non c’era fretta. La Nuova Opposizione, un po’ a disagio con l’atmosfera liturgica e la massa di pellegrini sotto il palco, oltre che a causa di un naturale senso del pudore, faticò un po’ di più a portare a compimento i propri tentativi. Nello spazio di cinque ore, però, venti teche erano state mostrate alla folla, la notte era scesa, il Paese aveva di nuovo un governo, e la popolazione aveva nuovi leader da seguire.
Domani, alle venti, torneremo tutti qui, disse il capo con voce profonda ed espressione ispirata. Domani torneremo, e voi ascolterete di nuovo la mia parola. Io vi dirò cosa fare, disse. In realtà, non aveva molto chiaro cosa avrebbe detto precisamente l’indomani, ma sapeva che qualche cosa gli sarebbe venuta in mente. Era un Dio con una buona capacità di improvvisazione.
Sandro

venerdì 8 maggio 2009

Antipolitica/decima parte


I venti si riunirono. Raggiunsero, a piedi, in ordine compatto, Piazza del Popolo. Portavano con sé assi, legname, chiodi e martelli. Nessuno di loro aveva mai fatto il falegname, ma avrebbero imparato. Del resto, tutti gli altri operai erano morti, o se non erano morti non avrebbero mai accettato di mettersi al lavoro in quei momenti, in mezzo a quella carneficina. I venti lavorarono indefessamente, incuranti dei curiosi, incuranti della gente che moriva lì accanto, a pochi passi, persino sulla struttura che stavano erigendo, persino tra i loro piedi. Non rispondevano a domande né minacce. Facevano la faccia impegnata, rispondevano aspettate, rispondevano sappiamo quello che stiamo facendo, e lo stiamo facendo per voi. E non era poco, in un momento in cui tutti facevano qualsiasi cosa solo per se stessi, e soprattutto senza avere la minima idea di cosa fosse giusto fare.
In breve si radunò una folla immensa in Piazza del Popolo. I venti continuavano a lavorare, senza sosta. Dato che tutti i tentativi di avere delucidazioni erano andati a vuoto, la folla, incuriosita e nervosa, iniziò a darsi da fare, pur di abbreviare i tempi: chi portava i chiodi, chi issava le assi, chi tirava martellate, chi saldava travi, in breve il lavoro fu terminato. Era quasi notte, ma ci si vedeva.
La costruzione risultò essere un enorme palco. Una sedia era al centro del palco. Era una sedia particolare, di pregevole fattura, proveniente dal salotto migliore del nuovo capo dei venti. Gli era stata però apportata una fondamentale modifica: al centro, la sedia aveva un buco, di una trentina di centimetri di diametro, realizzato senza troppi complimenti a pedate e martellate. Sotto il buco, era stata posta la teca di vetro, aperta. Dietro la prima sedia, altre diciannove sedie erano allineate in seconda fila. Tutte bucate al centro, tutte con la loro brava teca di vetro aperta sotto.
Tutto era pronto. La folla tratteneva il respiro, le più improbabili deduzioni venivano avanzate.
Il capo dei venti, seguendo sempre l’istinto che funzionava così brillantemente in quei giorni di crisi, decise di dare inizio allo spettacolo. Salì sul palco. Qualche timido applauso si levò dall’oceanico pubblico.
Invitò i diciannove a seguirlo.
Altri timidi applausi. Poi i venti in sincrono si calarono le brache, si abbassarono le mutande, e posarono le terga sui venti innovativi scranni.
E a questo punto il capo prese la parola. Non aveva mai parlato davanti a così tanta gente, ma quella era la sua occasione, e non poteva fallire. E poi, molte cose erano cambiate. Lui era cambiato, in quei giorni. Non era più un oscuro funzionario di partito. Prima gli si prospettavano anni di subordinazione e di prona accettazione di voleri superiori. Prima doveva passare carte, eseguire ordini, tacere e parlare a comando. Adesso era l’unico in Italia a sapere cosa si doveva fare, e nessuno era più importante di lui. Presto, se fosse andato tutto bene, folle sarebbero state pronte a eseguire ogni suo più futile ordine espresso con il più impercettibile segno del capo. Quella che si dice una fulminea carriera. Il capo dei venti era ormai Dio, e aveva iniziato a cadere in una leggera megalomania. Non aveva nessuna fretta. Seduto sul suo cesso all’aperto, sentiva di avere sotto le sue ormai nobili chiappe un trono, di più, un altare. Le contrazioni del suo apparato digestivo erano ancora lontane, ma non bisognava sforzarsi, bisognava lasciare fare alla natura. Tanto, la folla era ormai radunata, il passaparola aveva convogliato nella piazza centinaia di migliaia di persone, e nessuno se ne sarebbe andato prima del dovuto.
Il capo iniziò a parlare, strano a dirsi, ma non aveva preparato nessun discorso, iniziò a declamare a braccio, seguendo solo l’ispirazione del momento. Erano lontani i tempi in cui per una semplice interrogazione personale metteva a lavorare sulla sua dichiarazione di due minuti e mezzo tutto il suo staff, e studiava tutto a memoria. Ma quello era prima di diventare Dio.
Sandro

giovedì 7 maggio 2009

Antipolitica/nona parte


I venti politici sopravvissuti, per dimostrare a se stessi e al mondo che c’era un motivo dietro alla loro resistenza intestinale altrimenti inspiegabile, si riunirono a casa del più autorevole di loro, e stabilirono con assoluta convinzione, in totale buona fede, che Dio aveva risparmiato proprio loro perché erano stati prescelti da Dio per rifondare il sistema politico nazionale corrotto. Sul sistema politico nazionale corrotto erano tutti d’accordo. Però quattro dei venti politici erano atei irriducibili, e non accettavano il riferimento alle motivazioni divine, suggerendo piuttosto una migliore capacità antibiotica. Comunque i venti decisero che non dovevano dividersi su questioni così futili, e si accordarono così: i sedici sostenitori della preselezione divina avrebbero fatto il governo, e i quattro della super-capacità antibiotica sarebbero stati all’opposizione, che comunque ci voleva. Poi uscirono fuori per portare il loro verbo al popolo. Rubarono un vecchio camioncino al rivenditore d’auto più disonesto della capitale, che era stato tra i primi a defecare l’ultima diarrea. Montarono sopra un altoparlante, tipo quello degli arrotini. Rimediarono un microfono, e iniziarono a fare i loro giri, come un circo scassato e raccogliticcio che improvvisasse una pubblicità strada per strada. A turno parlarono tutti, nuovo governo e nuova opposizione, e dissero quello che veniva loro in mente, che loro rimanevano legittimi rappresentanti del popolo sovrano, che Dio, o una super-capacità antibiotica, li aveva risparmiati, che al Paese servivano cure drastiche a cui loro avrebbero pensato, con l’aiuto del popolo. Ma nessuno li ascoltava, in quel delirio di merda e corpi e morti tutti pensavano a salvarsi, o a salvare i propri cari. I venti politici alzarono il tono della voce, divennero apocalittici, divennero rassicuranti, minacciarono e promisero, ma niente. Il popolo era impazzito, la gente urlava per le strade, la situazione andava fuori controllo sempre di più.
Il più autorevole dei venti ebbe una pensata fulminante. Una pensata che forse gli avrebbe assicurato un giorno la poltrona di Primo Ministro, se il loro fosse mai diventato un governo vero.
I cittadini erano terrorizzati, non ascoltavano, non sentivano, non ragionavano e non parlavano.
In mancanza totale di tutti gli altri sensi, c’era bisogno che vedessero, per credere.

Un terzo dei cittadini italiani lasciò il proprio corpo mortale in quel giorno. Una pestilenziale punizione divina da Vecchio Testamento, che in Europa non si vedeva più dal quattrodicesimo secolo. Neanche le bestie volevano toccare quei corpi. Né, tantomeno, i pochi spazzini comunali abili e arruolati. Rimasero quindi lì, all’aperto, senza che nessuno trovasse il coraggio di rimuoverli. Vivi e morti convivevano, o forse conmorivano, negli stessi spazi, nelle stesse case, per le stesse strade.
Maghi, indovini e santoni entrarono in crisi. Quando le catastrofi e le morti tanto annunciate arrivarono davvero, gli stregoni si ritirarono, silenziosi e senza idee. L’improvvisa peste verde colse di sorpresa praticamente tutti quelli che per mestiere predicevano disgrazie. Muti o balbettanti, vennero presero d’assalto da un incredibile afflusso di clienti, pronti a sborsare qualunque cifra pur di ricevere la salvezza. Ma i maghi non erano abituati a discutere di cose così precise e così evidenti. E ad essere smentiti così, sull’attimo. Un mago con un grande turbante rosso aveva accumulato milioni in poche ore smerciando acqua, zucchero, succo di limone e colorante blu in raffinate bottigliette anch’esse azzurre. Il misterioso liquido era andato a ruba. Quando però i primi cinquanta clienti morirono di peste verde, sotto gli occhi degli altri avventori, per di più con la lingua blu, oltre alla consueta faccia verdastra, il resto dei clienti in coda si sentì piuttosto truffato, e anche abbastanza arrabbiato. Il mago fu costretto a mangiarsi il turbante e a bersi tutto il colorante, ma non se ne fece una gran preoccupazione, perché prima del morso iniziale, un provvidenziale e fulminante attacco di peste verde lo colpì, sottraendolo alla furia dei miracolati delusi. Evidentemente, la folla aveva iniziato a mordere. Il Ministero della Sanità per gli Abbienti fu messo a fuoco e fiamme, letteralmente: migliaia di cittadini folli e ciechi lo assaltarono, accumularono scrivanie e scartoffie e mobili nell’ingresso, rovesciarono intere pompe di benzina e diedero fuoco. L’incendio fu spettacolare.
La folla rimase molto soddisfatta dall’effetto del fuoco che lambiva gli eleganti palazzi marmorei. Stabilì che aveva trovato la soluzione a tutti i mali, e si diresse verso altri luoghi del potere, che potevano più o meno avere a che fare con l’epidemia. Era uno spettacolo d’altri tempi: forconi e torce alla mano, i servi della gleba si apprestavano a bruciare il signorotto di campagna che aveva esagerato con le malefatte.
Il più autorevole dei venti politici vide il fuoco, vide la massa infuriata, vide i corpi ammassati e abbandonati. Era ancora insieme agli altri diciannove, ed è una cosa piuttosto scontata, poiché i politici nei momenti di crisi tendono sempre a riunirsi tra loro.
Già aveva avuto la pensata, e lo spettacolo gli disse chiaramente che aveva visto giusto, che nei cuori c’era paura in abbondanza, e la paura è la moneta che ha più valore nel mercato politico. Fatti pagare in paura, guadagnerai in potere. Era un traffico che si faceva da sempre e non era mai in perdita. Il più abile dei venti parlò agli altri. Disse loro che l’occasione era storica, che i pericoli erano molti, che soltanto i più coraggiosi e disinteressati potevano affrontare folle inferocite e domarle. Di più, conquistarle. Di più ancora, lusingarle, farle innamorare, esaltarle e portarle all’amore assoluto. Di più, farsi incoronare con pieni poteri. Spiegò il piano. Predisse che la nuova maggioranza e la nuova opposizione insieme potevano salvare l’Italia. Che bastavano, in realtà, venti teche di vetro, che si potevano procurare in qualsiasi negozio del settore, o, per fare una cosa più elegante, in qualsiasi gioielleria ben fornita. I diciannove, opposizione e maggioranza perfettamente concordi, iniziarono a perlustrare la città per soddisfare il nuovo improvvisato capo. Videro decine di fuochi. Centinaia di corpi. Atroce confusione, immani disastri e puzza di cadaveri. Finalmente videro anche venti teche di vetro, perfette per scopi e dimensioni, e anche di bell’aspetto, e ne fecero incetta. Rilasciarono al negoziante i buoni di un qualche Ministero, e il negoziante era così disperato per la morte dei figli e della moglie che arrivò persino ad accettare senza protestare.
Sandro

mercoledì 6 maggio 2009

Il bar di Paolino

Il bar di Paolino si chiama “La Rotonda”. È vicino a una rotonda.
Lisa

Antipolitica/ottava parte


Il giornalista, rimasto solo, decise di concedersi un attimo di calma per pensare. Scese di nuovo in strada. Cercò di calmarsi, di ritrovare tranquillità e capacità critica, per prendere una decisione ragionata. Tutto quello che riuscì a partorire fu una serie di considerazioni, piuttosto ovvie ma piuttosto innegabili: lo stipendio se ne era andato, i capi se ne erano andati, se non c’era più nessuno che scriveva articoli non c’erano più articoli, e quindi niente giornale. E quindi lui era senza lavoro. E di conseguenza il suo capolavoro di cinque cartelle, il resoconto da prima pagina sull’eccidio in Parlamento, era da buttare. Oltretutto, ora che si era capito che la morte aveva preso anche tutto il giornalismo italiano, e anche l’industria, e chissà quanti altri settori, l’articolo era anche decisamente poco aggiornato. Lo buttò senza troppi rimpianti nel cestino. Riuscì a cogliere per un breve attimo la crudele ironia di non voler buttare dei fogli per terra per paura di inquinare, quando negli uffici sopra la sua testa c’erano tonnellate di rifiuti umani in decomposizione che nessuno forse avrebbe mai pulito. Alla fine, scuotendo la testa, decise di tornarsene a casa anche lui. Iniziò a camminare. Gli tornarono in mente tutte le volte in cui c’era stata una crisi ministeriale, o una proposta di legge innovativa, e lui aveva titolato "Malumore nel Paese", oppure "Crisi insostenibile", oppure "La società civile si ribella". Una volta addirittura aveva scritto che c’era "Rischio di rivoluzione", quando un ministro aveva proposto di alzare le tasse dello 0,5% per adeguarsi al programma di aiuti europei all’Africa. Tutta quella preoccupazione per come avrebbe reagito l’opinione pubblica. Per cosa avrebbero fatto le masse. Ora la rivoluzione era successa davvero, e le masse non facevano proprio niente. Qualcuno passeggiava. Qualcuno chiacchierava. Qualcuno sbadigliava. Qualcuno mangiava. Tutti sembravano straordinariamente calmi. Il giornalista, arrivato finalmente a casa, rinunciò a capirci qualcosa. Mise la chiave nel portone, entrò, e si sforzò di dimenticare tutto quel delirio, per quanto poteva.


Al Venerdì Marrone seguì un Sabato ancora più Marrone. La popolazione italiana aveva seguito i tragici avvenimenti, la strage che aveva decimato la punta dell’iceberg sociale, con un misto di preoccupazione e indifferenza, con lo stato d’animo con cui si assiste a un thriller poco riuscito. I giornali il sabato non erano usciti, le televisioni neppure, per ovvi motivi, e tutto era così quieto che sembrava irreale preoccuparsi. Senza fonti ufficiali, le città parlavano pigramente del numero dei morti, come in altri tempi avevano parlato di Tangentopoli e Calciopoli. Diecimila morti, diceva qualcuno. Centomila, ribattevano i più allarmisti, e quelli che volevano passare per ben informati. Un milione di morti, dicevano i più coraggiosi, e sfidavano le occhiate perplesse dei saggi e degli anziani. “Calcolate”, dicevano, “fate un semplice calcolo: il Primo Ministro ha dodici ministri, ogni ministro ha due sottosegretari, ogni sottosegretario ha quattro aiutanti, e loro quattro vice ciascuno. E poi pensate ai partiti, alle Camere, ai vice, ai ripescati, alle sezioni di provincia, ai militanti e ai simpatizzanti e agli assessori e alle giunte: tutti morti. E questo solo per la politica, senza contare i capitani di industria, i magnati della finanza, i giornalisti, che a quanto so, sono tutti morti pure loro. Sì, signori, un milione di morti. È la cifra più realistica. Almeno un milione di morti”.
Con il passare del tempo, si sa come funzionano queste cose, la gente si stanca di parlare sempre di uno stesso argomento, senza che ci siano notizie nuove. E se non succede niente di interessante, e non ci sono dettagli freschi, il lavoro di fantasia diventa necessario, inevitabile. L’argomento insignificante diventa notevole. Quello interessante diventa gigantesco. E se l’evento è già di per sé è gigantesco, come in questo caso, allora bastano poche ore perché le versioni si gonfino, perché il flusso delle notizie inventate distrugga tutte le dighe della ragione. Le cifre più assurde acquistavano di mezz’ora in mezz’ora credibilità e autorevolezza accademiche. Il milione di morti sembrò presto una di quelle notizie da tempo di guerra, quando per definizione va tutto bene, stiamo vincendo e non abbiamo avuto perdite. Si iniziò a sussurrare, poi a dire con certezza, poi a gridare, tre, quattro, cinque milioni di morti. Si diceva che la malattia avesse iniziato a colpire a casaccio, senza più la chirurgica precisione dei primi momenti, come se la Morte si fosse rimessa la benda, e adesso dimenasse il forcone da ubriaca, senza guardare. Il silenzio di radio, giornali e televisioni era stato riposante, e aveva calmato tutti, all’inizio. Tutti avevano pensato che fosse una bella pausa di relax nell’intricato svolgersi dei giorni. Ma con il passare del tempo quella stessa calma, quello stesso silenzio, divennero insopportabili, acuti, opprimenti, il silenzio dei morti, dei cimiteri, delle catastrofi che non hanno nome. La folla era sul punto di agire, di fare qualcosa, qualsiasi cosa che le permettesse di sfuggire all’immobilità. Tutti sanno che le folle e i cani hanno la stessa psicologia, e attaccano quando si sentono molto forti, o molto impauriti. La folla era stretta all’angolo, non aveva vie di fuga e sentiva qualcosa che la spingeva in vicoli ciechi. Presto la folla avrebbe iniziato a mordere, e non aveva importanza cosa avrebbe morso.
Il fatto è che la massa, come capita quasi sempre, aveva in realtà ragione, e aveva capito quello che stava succedendo. La malattia si propagava, tra tutti gli strati della popolazione.
Avvocati e imputati schiattavano insieme, progettando la dichiarazione completamente inventata che avrebbe fatto capitolare il giudice.
Quel giudice stesso moriva mentre parlava al telefono, seguendo un complicatissimo codice, e stabiliva l’importo esatto della mazzetta con un importante industriale del tortellino, che moriva anch’egli in quell’esatto istante.
Fruttivendoli, artigiani, muratori, banchieri, cadevano giù come mosche, in casa loro, per strada, mentre parlavano con gli amici. Ora dopo ora, la malattia si faceva più veloce, più fatale e più indiscriminata, uccideva con la rapidità e la facilità di un impiegato che avesse imparato a disbrigare le sue scartoffie senza guardare.
Automobilisti non portavano mai a termine il loro viaggio in Suv.
Oltrepassatori di aiuole schiattavano calpestando margherite.
Padroni di cani ignoravano la cacca dei loro beniamini, e morivano fulminati all’istante dalla propria.
L’Italia si svuotava, si prosciugava, moriva sommersa dal suo letame. La puzza aveva da tempo oltrepassato i confini nazionali, infischiandosene del mare, dei venti, delle montagne, causando incredibili danni. In Francia il vino si faceva aceto, il formaggio inacidiva, in Svizzera i prati verdi subivano piogge tossiche, in Germania la birra diveniva analcolica d’un colpo.
L’Italia moriva, era evidente.
Sandro

martedì 5 maggio 2009

Antipolitica/settima parte


Dopo un’altra decina di minuti, uscì da un remoto angolino della grande sala il giornalista sorteggiato, anche lui miracolosamente sopravvissuto. I colleghi degli altri giornali non ce l’avevano fatta. Lui si era buttato in un posto sicuro appena tutti avevano iniziato a urlare e a morire. A discapito dell’etica professionale, che gli avrebbe ingiunto di guardare e documentare tutto, si era preso la testa tra le gambe, aveva chiuso gli occhi, aveva pianto e gridato a sua volta, e insomma non sapeva dire proprio nulla di quello che era successo. Aveva riaperto gli occhi solo quando tutti i rumori erano cessati. Si guardò intorno. Vide gli splendidi tendaggi bisognosi di una robusta visita in lavanderia. Vide i meravigliosi quadri antichi orribilmente macchiati da materiale organico. Vide gli antichi scranni tutti insozzati. Vide centinaia di morti, cadaveri già in putrefazione. Vide la montagna di merda che aveva riempito il Parlamento. Sorrise. Pensò che ci sarebbe venuto fuori un grande articolo.


E invece l’articolo non uscì proprio per niente. E non perché il bravo giornalista non si fosse impegnato, e non avesse consegnato le sue brave cinque cartelle in perfetto accordo con la linea del suo giornale. Lui il lavoro l’aveva fatto. Il problema è che non aveva nessuno a cui consegnarlo. Mandò una mail al caporedattore. Inaspettatamente, non ricevette la consueta risposta di avvenuta ricezione. Mandò una seconda mail, e non ebbe miglior fortuna. Si decise allora di chiamare sul cellulare, nonostante il caporedattore gli avesse espressamente detto, al momento di consegnargli il foglio con il prezioso numero, che se l’avesse usato in una situazione un po’ meno grave di una catastrofica emergenza, gli avrebbe schiacciato le palle nelle rotative, distribuendole in minuscoli frammenti su un milione e centomila copie. Ma del resto, questa volta la Notizia c’era, e da prima pagina, anzi, era così grande da riempirci tutto il giornale: il Paese era nella merda fino al collo, anche se detto così non sembrava una grande novità.
Il telefono squillò a vuoto. Riprovò. Al decimo squillo sentì rispondere una donna, dal forte accento sudamericano, forse del Messico. Provò a chiedere notizie del capo. La donna urlava qualche invocazione alla madre de dios. Chiese gentilmente cosa fosse successo. La donna tirò in ballo la virgen Maria y la mala suerte. Il giornalista era piuttosto confuso. Scandì bene, lentamente, il nome e il cognome del suo capo, e, ripescando flebili nozioni di spagnolo dell’Università, azzardò un timido –donde està?
Il primo lampo di quanto fosse veramente grave la situazione lo ebbe, finalmente, solo quando si sentì rispondere- Mierda. Mierda. Mierda.
Lo colse un terribile sospetto. Corse in redazione. Non voleva credere a quel pensiero che gli torturava la testa. Non voleva credere a quello che il suo istinto gli diceva con sempre maggior insistenza. Anche se dentro di sé, in realtà, aveva ormai capito cosa doveva aspettarsi. A ogni passo che lo avvicinava all’elegante sede della redazione, nel pieno centro storico di Roma, seppe con sempre maggior certezza che una volta dentro avrebbe trovato esattamente quanto si stava immaginando. E in effetti era proprio così.
Il caporedattore era morto. I suoi capi erano morti. Il vecchio direttore, che a centotre anni suonati si ostinava a scrivere e andare in televisione, anche se biascicava e sputava ed era completamente rincoglionito, era finalmente morto. Ma non della meritata morte per vecchiaia. Non di un colpo apoplettico, né di infarto. La fine non lo aveva colto come aveva sempre desiderato, ovvero con la penna in mano e il foglio sotto il pugno, mentre elaborava raffinate critiche alla situazione sociale e culturale del paese. La morte lo aveva preso al suo cesso privato, e gli aveva tinto la faccia di verde. Tutti erano verdi, tutti erano morti.
La puzza era così forte che i muri sembravano doversi piegare verso l’interno e crollare, o che i soffitti dovessero cedere per fare entrare un ricambio d’aria: sembrava impossibile che tanto insalubre fetore potesse essere contenuto dai trecento metri quadri della sede centrale. E sembrava ancora più improbabile che qualcuno fosse ancora vivo e potesse immettere nei suoi polmoni quell’aria. Ma qualcuno c’era. Erano gli stagisti, i ragazzi usciti dall’Università: il vecchio direttore li sceglieva personalmente dalle migliori facoltà, li accoglieva con un edificante discorso su diritti del lavoro, opportunità, speranze e doveri, li faceva lavorare per tre mesi, e poi, con ammirevole imparzialità, li rimandava a casa tutti quanti, e prendeva altri tre stagisti gratis. Questi tre in particolare, se non potevano vantare il tanto agognato contratto, almeno avevano soddisfatto il bruciante desiderio condiviso da tutti i loro predecessori: veder schiattare il vecchio tra atroci sofferenze. Il giornalista si fece raccontare dai tre ragazzi quello che era successo. Stesse identiche scene del Parlamento. I tre erano sconvolti. Forse temevano di essere portatori sani di un qualche contagio, e di dover subire le conseguenze della strage. Ma a sentire che era morto praticamente tutto il Parlamento, si sentirono molto sollevati. Furono quasi contenti. Rimanevano senza lavoro, ma erano anche senza capi, e senza molta concorrenza, sia nella politica che nel giornalismo. Salutarono il giornalista e se ne tornarono a casa loro.
Sandro

lunedì 4 maggio 2009

Antipolitica/sesta parte


“Colleghi”, disse, e gli mancò il fiato. Accorsero inservienti, uscieri, parlamentari. Stava evidentemente male.
“Colleghi”, ripeté, ma il fiato non gli usciva, era a pezzi, evidentemente incapace di muoversi, di agire, di parlare. Non avrebbe mai interrotto un importante discorso sul Nulla Assoluto se non vi fosse stato costretto.
“Colleghi”, disse ancora, e ancora la voce gli venne meno, il respirò si bloccò.
Fategli aria, disse qualcuno, lasciatelo respirare, insomma, allontanatevi.
Le sagge parole sortirono il loro effetto: la calca si allontanò, il Primo Ministro ebbe tempo di inalare profondamente, cercare di riprendersi e dire qualcosa, anzi, rilasciare una qualche dichiarazione, cosa che del resto era alla base di tutto il suo lavoro.
“Colleghi”, disse infine, circondato da unanime curiosità e apprensione.
“Colleghi, portatemi al cesso, vi supplico”
La penna cadde dalla mano del giornalista sorteggiato. Era una bella sorpresa. Il Primo Ministro era andato fuori tema per la prima volta in vita sua, e aveva detto qualcosa. Il mondo della politica sarebbe rimasto sconvolto. Ce n’era a sufficienza da far cadere due governi. Un brusio, presto un urlo, si scatenò tra i banchi.
I parlamentari dell’Opposizione Compiacente stavano già per urlare le fatidiche parole - dimissioni, dimissioni, dimissioni- quando il problema di chi far sedere sulla poltrona più prestigiosa del Paese divenne all’improvviso del tutto secondario. Una puzza tremenda impestò la prestigiosa aula. Divenne chiaro almeno dove si sarebbe dovuto sedere il Primo Ministro, e cioè sulla tazza del cesso, e anche che l’avrebbe dovuto fare prima, molto prima. Il Primo Ministro, nonostante l’arrivo istantaneo di una enorme quantità di dottori, morì in meno di quaranta minuti.


La poltrona prestigiosa del Primo Ministro, la poltrona per cui politici e uomini di potere avevano tramato e intrigato e battagliato, perse molto del suo appeal quando fu evidente che era stata sporcata nel più oltraggioso dei modi. Ma quel fatidico giorno, con il premier che cadeva per terra, la puzza che si spandeva nell’Aula e le urla dei deputati, a nessuno venne in mente di preoccuparsi di particolari così futili come il decoro e la pulizia. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a pieni polmoni uno dei suoi slogan politici - devi morire, devi morire. Era uno dei suoi cavalli di battaglia preferiti, perché a suo parere rivelava le sue origini da uomo comune: un uomo che veniva dalla strada, e con ancora maggior precisione, dalla curva dello stadio. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a squarciagola quando si accasciò a terra. Verde. La sua morte fu ancora più rapida di quella del Primo Ministro, e la sua puzza ancora più disastrosa. Il suo fedele braccio destro era con lui dai tempi degli insulti xenofobi contro i tifosi napoletani durante i Lazio-Napoli. Quando lo vide accasciarsi, si ricordò, tremando e piangendo, di tutti i bei momenti vissuti insieme. Quella volta che per lui aveva compiuto l’enorme sacrificio di rinunciare alla paternità dello striscione, Per una Napoli pulita, vota Vesuvio: aveva ammesso pubblicamente che l’idea era stata del suo capo, che era tutto merito suo, e gli aveva conquistato gloria imperitura, e il voto fedele e sicuro di mezzo milione di laziali. Non deve sorprendere quindi il fatto che fu lui il primo a chinarsi per sincerarsi della salute del leader dell’Opposizione Compiacente. Riuscì a vincere il ribrezzo. Riuscì a vincere la paura, la confusione terribile dell’aula, il colorito malsano e infetto dell’uomo steso ai suoi piedi, tutto in nome dell’amore e dell’affetto verso il suo mentore. Riuscì a vincere tutto, e si chinò. Non si rialzò mai più. Non riuscì infatti a vincere la terribile malattia, che lo fece diventare istantaneamente verde, gli prosciugò intestini e fluidi, e lo lasciò a morire, donandogli però il privilegio di condividere la stessa sorte del suo capo. Dallo stadio, al Parlamento, alla tomba. Sempre insieme. La faccia del fedele braccio destro, nonostante la puzza e i dolori terribili, si dipinse in un sorriso.
Incredibile confusione. Il Consiglio dei Ministri, all’unisono, defecò tutto il meraviglioso pasto consumato a mezzogiorno nel lussuoso ristorante privato: si deve dire, a onore dello chef fatto venire appositamente dalla dolce Francia, che, quando era stato servito in tavola, l’agnello era sicuramente più appetitoso della fetida poltiglia verdastra in cui era stato trasformato, e che adesso infestava i banchi parlamentari. L’Opposizione Compiacente poté gridare ben poco, anzi, per l’esattezza fu costretta a smettere subito le urla di protesta contro il premier: in realtà tutti continuarono a strepitare, ma erano ormai grida di sofferenza, dolore e paura. Altri novantotto parlamentari caddero per terra, seguendo la sorte del leader e del braccio destro. Stessa cosa, con mirabile par condicio, capitò agli esponenti del Partito della Conservazione Reazionaria, attualmente al Governo, e a quelli del Centro Sempre e Comunque al Potere. Duecento uomini, cento dei primi e cento dei secondi, precipitarono giù dai loro scranni, soffocati dalle loro stesse deiezioni. Il Paese perdeva centinaia delle migliori menti, il fiore dei figli sbocciati dal suo florido seno. La società rimaneva senza guida. L’aula per una volta smise di essere sorda e grigia, e divenne un caotico regno di urla e lamenti su uno sfondo marroncino e maleodorante. Ettolitri di liquami poco nobili vennero versati da nobili e onorati corpi. Manipoli di inservienti bivaccavano correndo come disperati da un leader all’altro, cercando invano di salvare i salvabili. La puzza che usciva dal Parlamento invase il centro di Roma, via dei Condotti, piazza di Spagna, mise in fuga i turisti nipponici e corrose le antiche mura del Colosseo che ne ricevettero un danno permanente. Quel giorno venne ricordato, con un’ironia del tutto fuori luogo, come il Venerdì marrone. Trecentotrentuno parlamentari erano morti in meno di due ore. Un’intera classe dirigente spazzata via nello spazio di un intervento parlamentare.
Dai banchi orribilmente sporchi, da sotto le poltrone stracolme di cadaveri, quando il silenzio tornò a regnare, emersero, timidi, solo venti sopravvissuti. Erano parlamentari alla prima legislatura, i più sfigati, di destra e di sinistra, non si erano aggiudicati neanche un posticino misero da aiuto sottosegretario. Si rialzarono da sotto le sedie, dove si erano nascosti durante il delirio e la confusione, e dapprima non si capacitarono di essere scampati alla terribile sorte che aveva colpito tutti i loro superiori. Pensarono in un primo tempo, seguendo la logica e la disciplina di partito, che anche loro erano morti, anzi, erano morti per primi, in rigoroso ordine meritocratico. Si è mai vista una guerra in cui muoiono re e generali e ambasciatori e sopravvivono umili fanti? Ma la realtà era innegabile. I venti si tastarono, controllarono bene, ricontrollarono nuovamente. Tutti i loro capi erano morti. Loro erano vivi. Si sorrisero, mettendo da parte per una volta le differenze politiche che li dividevano. Guardarono i loro capi senza vita e senza budella, e sorrisero di nuovo. Poi scapparono fuori, in cerca di aria pulita. Si misero a correre, pensando con un fugace barlume di preoccupazione che, l’indomani mattina, gli sguatteri statali avrebbero avuto un bel daffare, a pulire tutto quel casino.
Sandro

mercoledì 29 aprile 2009

Antipolitica/quinta parte


Medici in camice bianco. Cliniche di fama internazionale. Luminari, assistenti, dottori, laureandi. E poi giù fino a santoni, guaritori, streghe e fattucchiere, telepredicatori, preti e vescovi. Tutti a indovinare la causa del nuovo morbo, che aveva fatto fuori un importante politico e un ricco industriale. Ognuno con la propria ricetta, ognuno con la propria diagnosi, ognuno convinto della propria assoluta ragione. Il Parlamento convocò tutti in massa, elargì a ognuno un generoso compenso per la consulenza, sentì tutti, e poi li rimandò a casa, senza avere neanche la minima idea di quelle che realmente era successo. Si sapeva solo che uno del Parlamento era morto, e questo era un problema gravissimo, e che un sacco di altri soldi se ne erano andati per tutte quelle consulenze, e questo era meno grave, perché non si era mai capito chi pagava realmente i conti del Parlamento, ma di certo a nessuno gliene fregava un accidente.
Il Presidente del Consiglio si presentò in aula, per rispondere a un’interrogazione dell’Opposizione Compiacente. Tema, neanche a dirlo, la morte delle due importanti personalità. Il Presidente si era preparato un discorso fenomenale, che aveva intenzione di collocare quale punta di diamante nel libro delle sue memorie, di prossima uscita. Del resto, il Presidente era un oratore eccezionale, di pregevolissima abilità, abituato a riscuotere entusiasmi e ovazioni. La sapienza oratoria era una caratteristica fondamentale per avere successo in Parlamento, e l’ultima ambiziosa legge elettorale aveva finalmente riconosciuto l’intrinseca importanza del saper parlare. Dopo lunghe discussione su quale modello adottare, i parlamentari si erano accordati su un criterio semplice, infallibile, imparziale e inattaccabile. Uguale per tutti. Gli schieramenti politici, dopo centinaia di anni di aspre e dannose divisioni, finalmente non avevano più senso, né necessità. Una grande evoluzione per la politica italiana. Semplicemente, in Parlamento si entrava sulla base di una prova scritta. E non c’erano nepotismo o raccomandazioni o spintarelle che tenessero. Solo il punteggio nudo e crudo faceva classifica, e solo i primi cinquecento entravano in Parlamento. E il primo in assoluto diveniva Primo Ministro, e i primi quindici si giocavano Ministeri e Sottosegretari all’annuale Lotteria. Un sistema democratico e pulito, da far invidia a qualsiasi Ateniese. Si doveva semplicemente sostenere la prova scritta, uguale anno dopo anno. Il tema infatti era fisso: Il Nulla Assoluto. Chi riempiva più pagine sul Nulla Assoluto, prendeva più punti. Ogni pagina, dieci punti. Ogni parola più lunga di quindici lettere, altri dieci punti. Ogni termine sconosciuto a un liceale, cinque punti. Ogni costruzione complessa, ogni frase laboriosa, ogni passaggio poco chiaro, cinque punti. Badate bene, la prova era semplice solo in apparenza, poiché era arduo rimanere rigorosamente in tema per molte pagine consecutive. Dopo un po’, anche i più brillanti candidati rimanevano a corto di vocaboli, e invece di parlare del Nulla Assoluto iniziavano a metterci in mezzo altri argomenti, scrivevano qualcosa, e venivano di conseguenza squalificati. E invece il Presidente era il maestro indiscusso in materia. Un artista della parola. Un virtuoso dell’intreccio. La sua prova, che lo aveva consacrato Primo Ministro, era un vero e proprio trionfo di arte retorica. Il suo tema, per giudizio unanime, era il più gonfio, il più pomposo trattato sul Nulla Assoluto mai scritto prima. Quarantasei cartelle fitte fitte, senza mai tirare in mezzo un solo argomento, di più, neanche l’ombra di un qualsiasi spunto. Quarantasei cartelle, e nessuno che lo aveva letto ci aveva capito una sola parola, ma a tutti era sembrato bellissimo. Era un Presidente molto amato.

Da quanto durava il discorso? Un’ora, un’ora e mezza, forse due. Cartelle dattiloscritte si ammonticchiavano sulla destra del Presidente. Un altrettanto imponente cumulo di cartelle dattiloscritte aspettava sulla sinistra. Il Presidente si schiarì la voce, prese un sorso d’acqua. Sorrise. Sapeva che quel discorso avrebbe ammaliato i colleghi della Maggioranza Paludata e perfino quelli dell’Opposizione Compiacente. Il popolo se ne sarebbe innamorato, e avrebbe rinnovato, come sempre, il suo plebiscito d’ammirazione e di affetto. I giornalisti, anzi, il giornalista sorteggiato avrebbe riempito intere pagine di appunti, e tutti i giornali avrebbero lodato una volta di più il suo acume politico, la sua visione chiara dei problemi, la sua grande dialettica, la sua profonda conoscenza del Nulla Assoluto. Posò il bicchiere con gesto teatrale. Con un unico profondo sguardo ammaliò la platea. Aspettò che gli occhi di tutti si puntassero nuovamente su di lui. Fece il suo movimento con le mani preferito, quello che a prima vista sembrava un semplice gesto di nervosismo, come se stesse cercando di liberarsi dalla tensione agitando le dita. In realtà, quel gesto serviva proprio a dare una patina di umanità a una figura che altrimenti sarebbe stata troppo potente, lo rendeva ancora più grande proprio per quella sua debolezza, lo faceva ancora più superiore proprio con la messa in mostra di possibili, remote debolezze. Essere umano lo rendeva ancora più chiaramente Dio, come Cristo a suo tempo aveva insegnato. E del resto, Cristo era uno dei suoi argomenti preferiti, dopo il Nulla Assoluto, naturalmente. Compì con la lentezza dovuta il rituale gesto delle mani. Distese il viso nella tradizionale espressione preoccupata ma efficiente. Solo quell’espressione, si era calcolato, aveva fruttato tra un milione e un milione e mezzo di voti.
La sua espressione cambiò in un istante. Come il suo colorito. Come i gesti delle sue mani. Iniziò a tremare e muoversi come un epilettico. Un epilettico verde, per giunta.
Sandro

martedì 28 aprile 2009

Antipolitica/quarta parte


Mentre di buon mattino leggeva il giornale, il signor De Benedettis, titolare di un’importante catena di ristoranti fast food, faceva colazione, e scorgeva rapidamente le pagine. Era rimasto molto colpito dalla morte del Ministro, un buon amico, e un buon politico. Il Paese aveva perduto un valido funzionario, lui aveva perso un caro amico, sua moglie un caldo amante, e i suoi affari erano rimasti sprovvisti di un affidabile referente con la ‘ndrangheta, partner commerciale molto importante per gli affari del De Benedettis. In poche parole, una vera tragedia. Ma la vita andava avanti, come sempre doveva fare, e come sempre avrebbe fatto. La moglie avrebbe trovato altri amanti, e lui altri amici. Uscì, salutò la dolce metà, salì sull’elegante auto con i vetri oscurati. Salutò l’autista. Scambiò con lui quattro parole, le stesse di ogni mattina. Entro venti minuti sarebbe stato al lavoro. Aveva finalmente trovato un metodo infallibile per abbattere radicalmente i costi, e per fregare la spietata concorrenza cinese e indiana. Era inutile puntare tutto sul buon prezzo della carne. Aveva provato con i gatti, i cani, i topi e persino gli scoiattoli dei parchi, ma senza successo: gli hamburger della concorrenza costavano sempre meno ed erano pure più saporiti. Aveva sfogliato per settimane la sua enciclopedia degli animali per trovare una soluzione, ma era stato tutto inutile. Il giorno prima, però, aveva finalmente avuto una buona idea. Geniale, nella sua semplicità. Le discariche erano la soluzione. Bastava farsene dare in gestione una decina. Scandagliare tutti i rifiuti. Rintracciare tutti gli elementi organici. Bollirli in un enorme pentolone, condirli con disinfettante, Napisan Plus e qualche zucchina e qualche buona carota, e con tanta cipolla, ed ecco fatto. La zuppa De Benedettis avrebbe riempito il mercato. Un prezzo imbattibile, e un gusto sicuramente unico. Per di più, un’opera meritoria, che risolveva in maniera radicale il problema dei rifiuti. E tutto questo senza dover licenziare un solo dipendente. Bastava riadattare gli operai delle fabbriche di fast food in operatori ecologici, e tutti contenti. De Benedettis era soddisfattissimo della sua idea. Avrebbe avuto il plauso del sindaco, e il favore del mercato. Mentre sul suo viso si dipingeva un sorriso sempre più largo, De Benedettis sentì una fitta allo stomaco. Un dolore acuto, incontrollabile. Brividi presero a percorrerlo. Tremava. L’autista si rese conto che qualcosa non andava solo quando sentì un catastrofico rumore provenire dal retro, e abbassò il finestrino oscurato che lo divideva dal facoltoso principale. Ma subito lo tirò su di nuovo, e in fretta, poiché una puzza pestilenziale aveva contagiato tutta la macchina. Accostò, reprimendo a fatica i conati di vomito. Scese, si avvicinò allo sportello del passeggero, raccolse un profondo respiro e tutto il suo coraggio, e aprì la portiera. Un corpo rotolò ai suoi piedi. Un corpo esile, sottile, asciutto e tirato come un elastico. Sembrava impossibile che avesse mai potuto contenere del sangue e degli organi. Il corpo era completamente, scusate la volgarità, ricoperto di merda. Era diventato praticamente anch’esso parte della poltiglia marrone e disgustosa che aveva riempito lo schienale posteriore. Solo la faccia aveva un altro colore, e non era stata colpita da qualche goccia fuori controllo dell’orribile liquame. Il signor De Benedettis aveva la faccia completamente verde. E, inutile a dirsi, era morto.
Sandro

lunedì 27 aprile 2009

Antipolitica/terza parte


Grande scalpore riscosse la notizia in tutta Italia. I giornali erano in fibrillazione, nei bar e nei luoghi di lavoro non si parlava d’altro, tutte le città erano un unico indistinto mormorio, urlo, ragionamento e discussione, tutto su un singolo e solo argomento. Un Ministro della Repubblica, e uno dei più importanti per giunta, morto di colpo, di diarrea. Prosciugato dall’interno, dal proprio stesso intestino. Sotto gli occhi, e purtroppo anche sotto l’olfatto, di dieci tra i più autorevoli giornalisti dell’editoria nazionale. Gli appunti presi dallo sfortunato sorteggiato, debitamente controllati e adattati alle esigenze delle varie linee dei quotidiani, fecero il giro della penisola, dell’Europa e del mondo.
La Voce del Fazioso ipotizzò che si trattasse di una squallida iniziativa terroristica: per modalità ed efferatezza, si scorgeva chiara la mano del fondamentalismo islamico, con qualche evidente infiltrazione brigatista. “Le brigate rosse non sono mai morte nel nostro Paese” ebbe a dire il sempre vigile Ministro per il Conformismo pubblico, “esse sono come un cancro sempre rinnovantesi nel tessuto più sano della società. Il pericolo è in agguato”. Ripeteva la stessa dichiarazione ogni primo venerdì del mese, da sei anni, e non avrebbe di conseguenza ottenuto tanto rilievo, se questa volta non fosse stata letta in relazione al luttuoso avvenimento, con grande gioia dei fedelissimi del Ministro, che per giorni interi andarono sbandierando l’acume politico del loro capo, dichiarazioni alla mano.
Il Corriere della pronta e prona informazione uscì con uno speciale di dieci pagine, a colori, sulla vita e le opere del defunto Ministro, ipotizzando che la causa di tutto fosse una bottiglietta di acqua santa, religiosamente scolata dallo sventurato, e diabolicamente contraffatta dal destino o da qualche malintenzionato. In un toccante editoriale, il direttore del Corriere paragonò il morto a un santo dei nostri giorni, ne propose la beatificazione, e non esitò a dire che un tale esempio di rettitudine meritava la speciale onorificenza di Martire dello Stato.
La Gazzetta Falsa e tendenziosa disse che finché non si rimuovevano le cause del malessere sociale, nulla poteva cambiare realmente: frase che sembrò a tutti molto giusta e profonda, e che la vedova estone usò prontamente il giorno del funerale. Sarebbe probabilmente entrata nell’opinione comune, se dopo la funzione religiosa un giornalista curioso, evidentemente inesperto del suo delicato mestiere, non avesse chiesto alla vedova cosa intendesse dire con quella frase così toccante, e la vedova estone non avesse risposta con il più sincero dei boh, prima di allontanarsi con somma discrezione in compagnia di uno dei becchini.
Il Rivoluzionario mansueto e velleitario, infine, disse subito che il Ministro aveva avuto esattamente quanto si meritava, e che la sua fine era simbolica della fine che aspettava tutto il sistema politico: ucciso dalla propria stessa merda. Disse che era molto giusto che il morto fosse trapassato tra atroci dolori e nauseanti puzze. Disse, in un lungo servizio di divulgazione storica, che lo stomaco del Che Guevara, al contrario di quello del porco finalmente scannato, era regolare come un orologio. Il Che andava di corpo una volta al giorno, immancabilmente, ogni tanto anche due, e mai nelle sue deiezioni si era ravvisata la mollezza tipica dei politicanti di oggi. La sua austera regolarità, mens sana in sano ano, non era stata incrinata neanche dal duro regime della vita di guerriglia, nemmeno dalle impervie marce sulla Sierra Maestra, dove il Che si era nutrito per nove settimane di sole banane, limoni e acqua di palude, senza riscontrare nemmeno un episodio di stitichezza.
Sandro

sabato 25 aprile 2009

Antipolitica/seconda parte


Stava per l’appunto pronunciando queste parole, davanti ai giornalisti sinceramente ammirati, quando il Ministro divenne improvvisamente verde. La moglie ventiquattrenne urlò. Il ministro faceva fatica a respirare. I dieci cronisti si guardarono, senza sapere che fare. Era uno scoop eccezionale. Mai nessun Ministro era divenuto verde prima.
“Sapete…”
La voce del Ministro era diventata un flebile lamento. Accadeva tutto molto in fretta. Era diventato perfettamente verde, il colore dei piselli in scatola. Mandava anche un cattivo odore. Sembrava un kiwi in avanzato stato di decomposizione. I giornalisti gli si strinsero attorno. Nove su dieci volevano essere utili, salvarlo in qualche modo. Il decimo scriveva furiosamente, poiché dalla sua penna dipendeva l’articolo di tutta l’industria dell’informazione italiana, e quindi della storia.
Sul suo taccuino aveva scritto |–saluti camorra- difficoltà respiratorie- colore verde- puzza in modo terrificante- farfuglia qualcosa, ma non si capisce-| quando il Ministro tirò un lungo sospiro. Divenne ancora più verde. Tutti erano molto attenti a quello che avrebbe detto.
“Sareste così gentili…”.
Non riuscì a finire la frase. La situazione si faceva quasi ridicola. Il Ministro aveva gli occhi fuori dalle orbite. La cravatta era sul punto di esplodere. Più in generale, tutto il suo corpo sembrava un enorme brufolo pressato da due gigantesche, per quanto invisibili, dita adolescenziali. Raccolse le ultime forze. Prese gli ultimi soffi di fiato. Spalancò i suoi polmoni, e gridò:
“C’è un cesso su questo cazzo di aereo?”
Lo portarono di corsa verso il bagno extra lusso dell’Air Force Italia. Fecero appena in tempo a levargli pantaloni e mutande, e a buttarlo sulla tazza. Il bagno era un vero capolavoro di minimalismo e funzionalismo, era costato un patrimonio alle già provate casse dello Stato, e i contribuenti dovevano fare grande fatica per poterselo permettere. Fu sicuramente un grave peccato sporcare quel bagno così lindo con tutto quello che uscì dal corpo del Ministro.
|-Non riesce a parlare- volgarità indegne di un uomo di Stato- corsa al bagno- quasi completamente nudo- terribile attacco di diarrea- aria irrespirabile- rumori ben poco degni di un’importante carica istituzionale-| è quanto scrisse il solerte giornalista sul suo taccuino. Di rumori imbarazzanti ne giunsero molti, da dietro la porta dell’elegante bagno. L’impianto di aerazione faceva del suo meglio, ma non riusciva a controbattere a quell’odore totale, nauseabondo, che impregnava i nasi e i vestiti e i cervelli. Il Ministro non uscì mai più da quel bagno.
Dopo un po’ i rumori cessarono. Scese un pesante silenzio. Qualche giornalista andò a bussare. La moglie provò a chiamarlo, ma finì per sbaglio per fare sesso con un avvenente steward, troppo sconvolta, evidentemente, per controllare i suoi istinti. Del Ministro non si sentì più nessuna voce. All’atterraggio a Roma, un’ora dopo, la porta del bagno era ancora ben chiusa. Alla fine arrivarono i Tutori dello Status Quo, con volanti e divise lucide e manganelli, e fecero irruzione. Buttarono giù la porta a spallate. Il Ministro era ancora seduto sulla tazza. Aveva un’espressione di totale dolore, e di schifo, e a ragione, considerata l’aria che c’era ancora lì dentro. Il Ministro era immobile, smagrito, la pelle gli cadeva come uno straccio sporco sulle ossa. Completamente prosciugato. Come se le due enormi, per quanto invisibili, dita adolescenziali lo avessero spremuto una volta per tutte. Il Ministro dei Rapporti con la criminalità organizzata era morto.
Sandro

venerdì 24 aprile 2009

Antipolitica/prima parte





Le cose andavano più che bene per il Ministro dei Rapporti con la Criminalità Organizzata. La sua carriera procedeva a gonfie vele, e anche l’ultimo incontro si era risolto in un vero e proprio trionfo. Sul lussuoso Air Force Italia, rilassato nella comoda poltrona di pelle, sorseggiava il Martini e soda, sapientemente preparato dal suo barman personale. Il Ministro era l’immagine stessa della soddisfazione. Raccontava con somma gioia gli eventi del pomeriggio. Una vittoria storica per lo Stato Italiano, oltre che per lui stesso, naturalmente. Lo Stato avrebbe immensamente arricchito le sue esangui casse. Lui, grazie a questo successo, avrebbe potuto comprare altri dieci voti all’annuale Compravendita del Sostegno Politico, e farsi eleggere a qualche carica più importante. Presidente della Camera. Presidente del Consiglio. Presidente della Repubblica. L’ambizione del Ministro era smisurata, e del resto era stata l’ambizione a permettergli una così clamorosa, e rapida, carriera. L’incontro a Napoli, del resto, aveva tutte le carte in regola per passare alla storia. C’erano tutti i più grandi capi, tutti i capofamiglia dei più importanti clan partenopei, dai Badalamenti ai Collina ai Lo bello, non mancava nessuno. Era la prima volta che la Camorra rispondeva con questa sollecitudine a una richiesta di un confronto da parte dello Stato, e già il fatto che così importanti personalità avessero aderito senza indugi era un evidente segnale del rispetto che il Ministro stesso emanava con la sua magnetica personalità. Era stato un trionfo per lui. Una soddisfazione etica, politica e anche personale. Lo Stato si era aggiudicato tutto il racket della Sanità, fino all’ultimo euro. La Camorra rinunciava a ogni diritto, su ospedali, case di cura, posti letto e medici della mutua: finiva tutto dritto dritto nelle casse del Tesoro. Era un successo clamoroso, perché la Sanità era da sempre uno dei settori amministrati con più successo dalla Malavita organizzata. Certo, lo Stato aveva dovuto pagare il suo prezzo, e già il Ministro prevedeva quello che i più ostinasti critici dell’ Opposizione Compiacente avrebbero detto. La Camorra si riservava in cambio lo spaccio di tabacco, eroina, cocaina e ketamina, commerci molto fiorenti nel napoletano. Ma il Ministro, come stava appunto dicendo ai suoi fedeli giornalisti, era più che certo dell’accordo che aveva siglato, e l’avrebbe difeso in tutte le sedi opportune: era pronto a rispondere persino alle interrogazioni del Parlamento Pletorico schierato al completo. Era vero che lo Stato non incassava più un soldo dal commercio della droga, ammise, “ma cosa succede ai drogati, dopo che si sono drogati?”, chiese, gonfio di retorica.
Accanto aveva la bella moglie, una modella estone di venticinque anni, e uno stuolo di giornalisti, simbolo immancabile del vero potere. I giornalisti sembravano molto concentrati sulle parole del Ministro. In realtà non lo erano affatto, poiché il loro albo aveva già da tempo deciso, seguendo la più logica delle leggi, che era inutile che tutti prendessero appunti, facessero le stesse domande, registrassero gli stessi discorsi. Tanto alla fine in qualche modo finiva tutto su Internet, e i giornalisti facevano lo stesso pezzo copiandolo da lì. Perciò, in definitiva, l’albo aveva elaborato un nuovo, severissimo codice deontologico, da cui non si doveva mai prescindere: tutte le testate dovevano sempre viaggiare insieme, poi i giornalisti tiravano democraticamente a sorte, e chi usciva faceva l’intervista, o l’articolo di turno. Poi quello che aveva scritto passava il pezzo agli altri che nel frattempo si riposavano e chiacchieravano, e così tutti avevano il loro giornale fatto, con notevole risparmio di energia. Però la faccia concentrata, almeno all’inizio, la dovevano fare tutti. Faceva parte dell’aurea di rispettabilità di qualsiasi Ministro. E il Ministro dei Rapporti con la Criminalità Organizzata era famoso, oltre che per la splendida moglie, anche per il pessimo carattere, e teneva la sua rispettabilità nella massima considerazione.
“Dove vanno a finire i ragazzi che in questo stesso momento si stanno iniettando tutta quella droga? Certo, avranno pagato centinaia di euro, per diventare tossicodipendenti, e la Camorra ci avrà fatto su un bell’utile. Ma dove, amici della stampa, dove finiranno in ultima analisi tutti gli eroinomani, tutti i manager rampanti con le narici piene della preziosissima polverina? Dove finiranno quando il loro cuore non reggerà più, e inizierà a pulsare in testa così forte che potranno sentire nelle orecchie il rumore del sangue? Dove andranno a quel punto, tutti quei ricchi drogati?”
Il Ministro fece una pausa a effetto. Conosceva bene i suoi giornalisti. Le pause a effetto erano proprio quello che ci voleva. Vecchi trucchi, ma che funzionavano sempre.
“Finiranno in un letto di ospedale. Si faranno internare in qualche clinica privata. I più pezzenti si faranno visitare a domicilio da qualche laureando in medicina. Comunque sia, una parcella la dovranno pagare, e quei soldi finiranno dritti nelle nostre tasche. Vedete, distinti esponenti della libertà di stampa, dopo oggi lo Stato avrà l’invidiabile posizione di ultimo beneficiario di tutto il ciclo della droga, e sarà l’unico che ci guadagna sempre e comunque, e anche con la migliore posizione etica, il che non guasta mai. Senza dover spacciare una sola bustina, allo Stato andranno tutti i proventi delle costose cure. Pensate a quanti drogati ci sono oggi in Italia. Pensate a quali occasioni di guadagno. Fidatevi, cari giornalisti, oggi ho stipulato un accordo storico. Come ho detto ai cari amici della Camorra, da oggi siamo soci ancora migliori, perché ogni buco in vena fa un malato, ogni malato fa un conto di un dottore, ogni malato guarito fa un nuovo drogato. L’economia gira, e mai come oggi gli screzi tra le nostre organizzazioni sembrano futili e lontani. Lunga vita alla Camorra campana! Lunga vita allo Stato Italiano!”
Sandro

martedì 7 aprile 2009

Malinteso in un piccolo comune del Sud


«Buongiorno assessore».
«Buongiorno un corno».
«Che succede, assessore? Qualcosa che non va?»
«Può dirlo forte, assistente. Può dirlo forte. Le elezioni comunali sono alle porte, i sondaggi preannunciano un bagno di sangue, il sindaco mi vuole morto e se non vengo rieletto le rate della macchina mi strozzano peggio di un cravattaio. E niente rate niente macchina, e niente macchina niente moglie, con tutte le spiacevoli conseguenze che questo può comportare».
«Una brutta situazione».
«Una situazione di merda, e mi scusi il linguaggio, assistente. Qua bisogna trovare una soluzione».
«Per cosa? Per il sindaco, per la macchina o per la moglie?»
«Ma quale macchina? Ma cosa dice? Una soluzione per rivincere le elezioni, è ovvio. La gente è furiosa, tra un po’ darà fuoco al Comune. Sono tutti incazzati neri, e hanno ragione. E lei lo sa perché?»
«Perché, signor assessore?»
«Già, che ne sa lei? Lei non sa mai nulla. Sono incazzati perché si sentono insicuri, e invece vogliono sentirsi sicuri. La gente vuole esser sicura. Ripeta con me. La gente vuole essere sicura. Si-cu-ra. Come vuole essere la gente?»
«Si-cu-ra».
«Esattamente».
«E come facciamo a farla sentire sicura?»
«Ecco la domanda. Bisogna eliminare tutti gli elementi di insicurezza. Eliminarli una volta per tutte. Eliminate le insicurezze, il sindaco viene rieletto, io vengo rieletto, lei viene confermato, e le mie rate si pagano da sole. Chiaro, no?»
«Chiarissimo. Ma quali sono queste insicurezze?»
«È qui chi si vede chi è il politico e chi è l’assistente. Ecco la domanda, ripeto. Ma ecco anche la risposta. Basta leggere i giornali. Tutti i giorni, in tutti i comuni del Sud. Emergenza continua. Un pericolo che scorazza per le nostre città, incontrollabile. Sono sempre più numerosi. Sporchi, cattivi, puzzolenti. Se ne stanno agli angoli della strada a elemosinare un pezzo di cibo. E se non glielo dai, ti attaccano. Troppe tragedie. Troppi morti. Troppo sangue italiano versato per la loro inumana ferocia. È ora di finirla».
«In tanti ci hanno provato, signor assessore».
«In tanti ci hanno provato ma io ci riuscirò».
«E come farà, assessore?»
«Sarò più radicale di tutti. Pulizia spietata. Tutti si lasciano fermare dal buonismo, tutti a dire poverini, e la pietà cristiana, e gli occhioni dei piccoli, e bla bla. Io non mi lascerò condizionare da queste debolezze».
«E cosa farà, assessore? Una volta che si trovano sul territorio, non è facile spostarli. Non è facile neanche trovarli, in realtà. E mica possiamo ammazzarli».
«E chi l’ha detto?»
«Assessore!»
«Non si scandalizzi, assistente. Non mi dica che anche lei è una di quelle femminucce che si fermano davanti a un po’ di sangue. Non mi dica che anche lei si commuove per gli occhioni dei piccoli».
«Ma… Non è possibile… non ce lo permetteranno mai.. succederà un casino…».
«La prego di moderare il linguaggio, assistente».
«Mi pare che sarebbe meglio se lei moderasse le proposte. Ha in mente una strage».
«Certo, e lo confermo. Sterminio assoluto. Appena ne vediamo uno per strada, bum! Una bella fucilata. E avanti il prossimo».
«Ma non pensa alle reazioni dei cattolici, delle associazioni, del mondo della politica, di chiunque?»
«Non scherziamo, assistente. Tutti in realtà vogliono farlo. Basta non cedere alle prime pressioni, poi pian piano si convinceranno tutti».
«A me sembra una cosa disumana».
«Lo so, non è facile. Ma io conto su di lei. Anzi, dovrebbe essere proprio lei a dare il buon esempio».
«Vuole che prenda lo schioppo e scenda per strada a fare una carneficina?»
«Perché no?»
«Ma assessore, lei è pazzo».
«Moderi il linguaggio, glielo ripeto. E mi creda, tutti mi appoggeranno alla fine. Tra un mese non ce ne sarà più nessuno libero per strada, e vedremo allora chi riderà».
«Ma alcuni italiani amano…».
«Cazzate, e perdoni la mia scurrilità. Nessuno vuole ammazzare quelli che hanno una cuccia e un padrone. Saranno gli altri a fare una brutta fine».
«Una cuccia e un padrone? Ma come parla? Non le sembra di esagerare?»
«Perché?»
«Vorrà dire una casa e un datore di lavoro»
«Ma cosa dice?»
«Ma cosa dice lei, signor assessore. Il suo linguaggio è inaccettabile. Sembra che stia parlando di bestie, e non di esseri umani».
«Ma io sto parlando di bestie».
«Qua l’unica vera bestia è lei!»
«Stia attento, assistente, io la sbatto fuori di qui a calci. Ma quale datore di lavoro? Ma cosa sta dicendo?»
«Anche se sono immigrati, non dormono in cucce, e non hanno padroni. Sono pur sempre esseri umani».
«Esseri umani? Immigrati? Non la seguo, assistente».
«Ora non faccia il finto tonto, assessore. Ha appena proposto una pulizia etnica».
«Veramente io mi riferivo ai randagi che attaccano i bambini»,
«I randagi?»
«Sì, non li legge i giuornali? Due casi solo a marzo».
«Ah».
«Già».
«C’è stato un piccolo malinteso, assessore. Le porgo le mie scuse».
«Non si preoccupi, assistente. Forse anch’io sarei dovuto essere più esplicito, certo che qui tra cani, neri, cinesi, tasse e federalismo, non ci si capisce più niente».
«Ha proprio ragione, assessore. Allora procediamo con lo sterminio dei cani?»
«Certamente».
«E gli immigrati?»
«Ci penseremo poi».
Sandro