mercoledì 6 maggio 2009

Antipolitica/ottava parte


Il giornalista, rimasto solo, decise di concedersi un attimo di calma per pensare. Scese di nuovo in strada. Cercò di calmarsi, di ritrovare tranquillità e capacità critica, per prendere una decisione ragionata. Tutto quello che riuscì a partorire fu una serie di considerazioni, piuttosto ovvie ma piuttosto innegabili: lo stipendio se ne era andato, i capi se ne erano andati, se non c’era più nessuno che scriveva articoli non c’erano più articoli, e quindi niente giornale. E quindi lui era senza lavoro. E di conseguenza il suo capolavoro di cinque cartelle, il resoconto da prima pagina sull’eccidio in Parlamento, era da buttare. Oltretutto, ora che si era capito che la morte aveva preso anche tutto il giornalismo italiano, e anche l’industria, e chissà quanti altri settori, l’articolo era anche decisamente poco aggiornato. Lo buttò senza troppi rimpianti nel cestino. Riuscì a cogliere per un breve attimo la crudele ironia di non voler buttare dei fogli per terra per paura di inquinare, quando negli uffici sopra la sua testa c’erano tonnellate di rifiuti umani in decomposizione che nessuno forse avrebbe mai pulito. Alla fine, scuotendo la testa, decise di tornarsene a casa anche lui. Iniziò a camminare. Gli tornarono in mente tutte le volte in cui c’era stata una crisi ministeriale, o una proposta di legge innovativa, e lui aveva titolato "Malumore nel Paese", oppure "Crisi insostenibile", oppure "La società civile si ribella". Una volta addirittura aveva scritto che c’era "Rischio di rivoluzione", quando un ministro aveva proposto di alzare le tasse dello 0,5% per adeguarsi al programma di aiuti europei all’Africa. Tutta quella preoccupazione per come avrebbe reagito l’opinione pubblica. Per cosa avrebbero fatto le masse. Ora la rivoluzione era successa davvero, e le masse non facevano proprio niente. Qualcuno passeggiava. Qualcuno chiacchierava. Qualcuno sbadigliava. Qualcuno mangiava. Tutti sembravano straordinariamente calmi. Il giornalista, arrivato finalmente a casa, rinunciò a capirci qualcosa. Mise la chiave nel portone, entrò, e si sforzò di dimenticare tutto quel delirio, per quanto poteva.


Al Venerdì Marrone seguì un Sabato ancora più Marrone. La popolazione italiana aveva seguito i tragici avvenimenti, la strage che aveva decimato la punta dell’iceberg sociale, con un misto di preoccupazione e indifferenza, con lo stato d’animo con cui si assiste a un thriller poco riuscito. I giornali il sabato non erano usciti, le televisioni neppure, per ovvi motivi, e tutto era così quieto che sembrava irreale preoccuparsi. Senza fonti ufficiali, le città parlavano pigramente del numero dei morti, come in altri tempi avevano parlato di Tangentopoli e Calciopoli. Diecimila morti, diceva qualcuno. Centomila, ribattevano i più allarmisti, e quelli che volevano passare per ben informati. Un milione di morti, dicevano i più coraggiosi, e sfidavano le occhiate perplesse dei saggi e degli anziani. “Calcolate”, dicevano, “fate un semplice calcolo: il Primo Ministro ha dodici ministri, ogni ministro ha due sottosegretari, ogni sottosegretario ha quattro aiutanti, e loro quattro vice ciascuno. E poi pensate ai partiti, alle Camere, ai vice, ai ripescati, alle sezioni di provincia, ai militanti e ai simpatizzanti e agli assessori e alle giunte: tutti morti. E questo solo per la politica, senza contare i capitani di industria, i magnati della finanza, i giornalisti, che a quanto so, sono tutti morti pure loro. Sì, signori, un milione di morti. È la cifra più realistica. Almeno un milione di morti”.
Con il passare del tempo, si sa come funzionano queste cose, la gente si stanca di parlare sempre di uno stesso argomento, senza che ci siano notizie nuove. E se non succede niente di interessante, e non ci sono dettagli freschi, il lavoro di fantasia diventa necessario, inevitabile. L’argomento insignificante diventa notevole. Quello interessante diventa gigantesco. E se l’evento è già di per sé è gigantesco, come in questo caso, allora bastano poche ore perché le versioni si gonfino, perché il flusso delle notizie inventate distrugga tutte le dighe della ragione. Le cifre più assurde acquistavano di mezz’ora in mezz’ora credibilità e autorevolezza accademiche. Il milione di morti sembrò presto una di quelle notizie da tempo di guerra, quando per definizione va tutto bene, stiamo vincendo e non abbiamo avuto perdite. Si iniziò a sussurrare, poi a dire con certezza, poi a gridare, tre, quattro, cinque milioni di morti. Si diceva che la malattia avesse iniziato a colpire a casaccio, senza più la chirurgica precisione dei primi momenti, come se la Morte si fosse rimessa la benda, e adesso dimenasse il forcone da ubriaca, senza guardare. Il silenzio di radio, giornali e televisioni era stato riposante, e aveva calmato tutti, all’inizio. Tutti avevano pensato che fosse una bella pausa di relax nell’intricato svolgersi dei giorni. Ma con il passare del tempo quella stessa calma, quello stesso silenzio, divennero insopportabili, acuti, opprimenti, il silenzio dei morti, dei cimiteri, delle catastrofi che non hanno nome. La folla era sul punto di agire, di fare qualcosa, qualsiasi cosa che le permettesse di sfuggire all’immobilità. Tutti sanno che le folle e i cani hanno la stessa psicologia, e attaccano quando si sentono molto forti, o molto impauriti. La folla era stretta all’angolo, non aveva vie di fuga e sentiva qualcosa che la spingeva in vicoli ciechi. Presto la folla avrebbe iniziato a mordere, e non aveva importanza cosa avrebbe morso.
Il fatto è che la massa, come capita quasi sempre, aveva in realtà ragione, e aveva capito quello che stava succedendo. La malattia si propagava, tra tutti gli strati della popolazione.
Avvocati e imputati schiattavano insieme, progettando la dichiarazione completamente inventata che avrebbe fatto capitolare il giudice.
Quel giudice stesso moriva mentre parlava al telefono, seguendo un complicatissimo codice, e stabiliva l’importo esatto della mazzetta con un importante industriale del tortellino, che moriva anch’egli in quell’esatto istante.
Fruttivendoli, artigiani, muratori, banchieri, cadevano giù come mosche, in casa loro, per strada, mentre parlavano con gli amici. Ora dopo ora, la malattia si faceva più veloce, più fatale e più indiscriminata, uccideva con la rapidità e la facilità di un impiegato che avesse imparato a disbrigare le sue scartoffie senza guardare.
Automobilisti non portavano mai a termine il loro viaggio in Suv.
Oltrepassatori di aiuole schiattavano calpestando margherite.
Padroni di cani ignoravano la cacca dei loro beniamini, e morivano fulminati all’istante dalla propria.
L’Italia si svuotava, si prosciugava, moriva sommersa dal suo letame. La puzza aveva da tempo oltrepassato i confini nazionali, infischiandosene del mare, dei venti, delle montagne, causando incredibili danni. In Francia il vino si faceva aceto, il formaggio inacidiva, in Svizzera i prati verdi subivano piogge tossiche, in Germania la birra diveniva analcolica d’un colpo.
L’Italia moriva, era evidente.
Sandro

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