martedì 5 maggio 2009

Antipolitica/settima parte


Dopo un’altra decina di minuti, uscì da un remoto angolino della grande sala il giornalista sorteggiato, anche lui miracolosamente sopravvissuto. I colleghi degli altri giornali non ce l’avevano fatta. Lui si era buttato in un posto sicuro appena tutti avevano iniziato a urlare e a morire. A discapito dell’etica professionale, che gli avrebbe ingiunto di guardare e documentare tutto, si era preso la testa tra le gambe, aveva chiuso gli occhi, aveva pianto e gridato a sua volta, e insomma non sapeva dire proprio nulla di quello che era successo. Aveva riaperto gli occhi solo quando tutti i rumori erano cessati. Si guardò intorno. Vide gli splendidi tendaggi bisognosi di una robusta visita in lavanderia. Vide i meravigliosi quadri antichi orribilmente macchiati da materiale organico. Vide gli antichi scranni tutti insozzati. Vide centinaia di morti, cadaveri già in putrefazione. Vide la montagna di merda che aveva riempito il Parlamento. Sorrise. Pensò che ci sarebbe venuto fuori un grande articolo.


E invece l’articolo non uscì proprio per niente. E non perché il bravo giornalista non si fosse impegnato, e non avesse consegnato le sue brave cinque cartelle in perfetto accordo con la linea del suo giornale. Lui il lavoro l’aveva fatto. Il problema è che non aveva nessuno a cui consegnarlo. Mandò una mail al caporedattore. Inaspettatamente, non ricevette la consueta risposta di avvenuta ricezione. Mandò una seconda mail, e non ebbe miglior fortuna. Si decise allora di chiamare sul cellulare, nonostante il caporedattore gli avesse espressamente detto, al momento di consegnargli il foglio con il prezioso numero, che se l’avesse usato in una situazione un po’ meno grave di una catastrofica emergenza, gli avrebbe schiacciato le palle nelle rotative, distribuendole in minuscoli frammenti su un milione e centomila copie. Ma del resto, questa volta la Notizia c’era, e da prima pagina, anzi, era così grande da riempirci tutto il giornale: il Paese era nella merda fino al collo, anche se detto così non sembrava una grande novità.
Il telefono squillò a vuoto. Riprovò. Al decimo squillo sentì rispondere una donna, dal forte accento sudamericano, forse del Messico. Provò a chiedere notizie del capo. La donna urlava qualche invocazione alla madre de dios. Chiese gentilmente cosa fosse successo. La donna tirò in ballo la virgen Maria y la mala suerte. Il giornalista era piuttosto confuso. Scandì bene, lentamente, il nome e il cognome del suo capo, e, ripescando flebili nozioni di spagnolo dell’Università, azzardò un timido –donde està?
Il primo lampo di quanto fosse veramente grave la situazione lo ebbe, finalmente, solo quando si sentì rispondere- Mierda. Mierda. Mierda.
Lo colse un terribile sospetto. Corse in redazione. Non voleva credere a quel pensiero che gli torturava la testa. Non voleva credere a quello che il suo istinto gli diceva con sempre maggior insistenza. Anche se dentro di sé, in realtà, aveva ormai capito cosa doveva aspettarsi. A ogni passo che lo avvicinava all’elegante sede della redazione, nel pieno centro storico di Roma, seppe con sempre maggior certezza che una volta dentro avrebbe trovato esattamente quanto si stava immaginando. E in effetti era proprio così.
Il caporedattore era morto. I suoi capi erano morti. Il vecchio direttore, che a centotre anni suonati si ostinava a scrivere e andare in televisione, anche se biascicava e sputava ed era completamente rincoglionito, era finalmente morto. Ma non della meritata morte per vecchiaia. Non di un colpo apoplettico, né di infarto. La fine non lo aveva colto come aveva sempre desiderato, ovvero con la penna in mano e il foglio sotto il pugno, mentre elaborava raffinate critiche alla situazione sociale e culturale del paese. La morte lo aveva preso al suo cesso privato, e gli aveva tinto la faccia di verde. Tutti erano verdi, tutti erano morti.
La puzza era così forte che i muri sembravano doversi piegare verso l’interno e crollare, o che i soffitti dovessero cedere per fare entrare un ricambio d’aria: sembrava impossibile che tanto insalubre fetore potesse essere contenuto dai trecento metri quadri della sede centrale. E sembrava ancora più improbabile che qualcuno fosse ancora vivo e potesse immettere nei suoi polmoni quell’aria. Ma qualcuno c’era. Erano gli stagisti, i ragazzi usciti dall’Università: il vecchio direttore li sceglieva personalmente dalle migliori facoltà, li accoglieva con un edificante discorso su diritti del lavoro, opportunità, speranze e doveri, li faceva lavorare per tre mesi, e poi, con ammirevole imparzialità, li rimandava a casa tutti quanti, e prendeva altri tre stagisti gratis. Questi tre in particolare, se non potevano vantare il tanto agognato contratto, almeno avevano soddisfatto il bruciante desiderio condiviso da tutti i loro predecessori: veder schiattare il vecchio tra atroci sofferenze. Il giornalista si fece raccontare dai tre ragazzi quello che era successo. Stesse identiche scene del Parlamento. I tre erano sconvolti. Forse temevano di essere portatori sani di un qualche contagio, e di dover subire le conseguenze della strage. Ma a sentire che era morto praticamente tutto il Parlamento, si sentirono molto sollevati. Furono quasi contenti. Rimanevano senza lavoro, ma erano anche senza capi, e senza molta concorrenza, sia nella politica che nel giornalismo. Salutarono il giornalista e se ne tornarono a casa loro.
Sandro

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