lunedì 22 giugno 2009

Che fare




Decide di accendersi una sigaretta. E sì che non ha mai fumato. Ma è bello il gesto, la mano sinistra che sfiora la bocca, le labbra che si muovono per accogliere quell’oggetto lungo e rotondo, il pollice destro che sfrega la rotella dell’accendino. Solo che l’accendino non funziona. Vinicio lo scaglia con forza a terra, gli tira un calcio, l’accendino si infila sotto l’armadio, al sicuro da altre ritorsioni. Va a farsi un caffè in cucina, la casa è incredibilmente silenziosa, gli inquilini sono usciti tutti, chi a lavorare chi a studiare, nel palazzo nessuno ascolta musica o sposta mobili, se non fosse per il frigo si potrebbe pensare che non ci sia vita nell’universo, che il mondo si sia improvvisamente rotto. Il caffè è finito. Ed è inevitabile, dato che tutti lo bevono e nessuno lo compra. Vinicio bestemmia piano, con metodo. Raccoglie gli ultimi granelli del barattolo, li preme nel filtro, passa il dito sul vetro del contenitore per raccogliere le ultime particelle nere di polvere, ma è ridicolo, la caffettiera è ancora vuota, non ce n’è nemmeno per farsi una mezza tazzina. A fatica riesce a ricacciare l’impulso di scaraventare il barattolo fuori dalla finestra.
Prima prova della giornata. Che fare adesso? Fare la doccia, vestirsi. Uscire, andare a comprare qualcosa. Accendere la tv, andare al cesso. Fumarsi un’altra sigaretta. Ammazzare qualcuno. Andare a ricercare Chiara, magari picchiarla, investirla con la macchina. Oppure accendere il computer, controllare la posta. Torna in camera, rassegnato. Si siede davanti al Pc, preme con forza il tasto dell’accensione. Il computer ronza in modo poco rassicurante, diventa nero poi blu poi grigio, ogni giorno che passa ci mette sempre di più a caricare la schermata iniziale ma poi alla fine ecco, il jingle rassicurante di windows, la luce bianca e imperturbabile di google. La posta elettronica. È come un film porno, come un nuovo amore: ogni volta speri di trovarci qualcosa di nuovo ed eccitante, novità imprevedibili, e invece ci trovi sempre e solo le solite cose, ripetute all’infinito, ogni tanto riverniciate e spacciate per novità. Anche oggi. Pubblicità, inviti. Un sito che promette di trovare un posto di lavoro a chiunque si iscriva e immetta i suoi dati lo sta riempiendo di mail, offrendogli occupazioni sempre più improbabili. E sì che lui ha selezionato con estrema cura le qualifiche e le richieste. Giovane, laureato in lettere, cerca lavoro in redazioni, giornali, riviste, editoria in genere. E invece gli propongono di andare a fare il cuoco alle Bahamas o di pulire i cessi in Calabria. Anche oggi stessa storia. Telefonista a Cuneo, meglio se diplomata. Ma lui odia il telefono. E non ha nessuna intenzione di andare a Cuneo. E tra l’altro lui, incidentalmente, non è affatto una donna, e anzi da un po’ di tempo le donne le odia e le disprezza con furore crescente. Altre due mail. “Allunga il tuo pene. Prestazioni indimenticabili”, c’è scritto. Ma le sue prestazioni indimenticabili sono già state dimenticate, a quanto pare. L’altra mail lo invita ad andare praticamente gratis in Sudafrica, una vacanza da sogno per due persone, per due settimane, con due comodi clic si prenota tutto. Due, due, due. Il mondo sembra ragionare in coppia. E quando l’uomo ha inventato un altro mondo, un altro sistema di ragionare e di fare le cose, che cosa ha tirato fuori dal cilindro? Come ha organizzato il tutto? Un sistema binario. E ti pareva. È che proprio non gli entra in testa, all’umanità: infinite possibilità di organizzarsi, di plasmare il mondo e gli uomini, eppure non se ne esce. Sistemi binari ovunque. Uomo e donna, non si scappa, uno e due. E il bello è che Vinicio se l’era pure trovata una donna, l’uno che completava il suo zero e metteva in moto il sistema binario. Chiara, amica dell’università, compagna di letture, di letto, di libri e di bicchieri di vino. Tutto perfetto fino alla laurea. Il giorno più importante, genitori commossi, Chiara in lacrime, regali e pacche sulle spalle. E poi Vinicio che cerca lavoro, che lo trova, che lo perde. Si rifiuta di prendere una sola lira dai suoi, si sente grande e pronto per il mondo, controlla il conto, i soldi sono pochi, l’affitto è alto, i lavori saltuari. Lo studio chiude, un piccolo spazio privato in cui gli davano mille euro, qualche risata e molte ore di lavoro. Chiuso lo studio, il conto si assottiglia, volantinaggi e babysitteraggi. E in tutto questo l’amore di Chiara che dimagrisce in perfetto sincrono con il conto, niente più cene, niente più concerti, niente più vacanze di tre giorni a Berlino come quando pagava papà. Ma lei diceva che gli sarebbe stata accanto sempre e comunque: “ricordati le mie parole, qualunque cosa succeda, se diventerai un barbone o un miliardario, per me non cambierà mai nulla, sarai sempre mio, sarò sempre tua”. Lui se l’è ricordate le sue parole, se le ricorda pure adesso. Lei invece se l’è scordata in un paio di mesi. L’idea di tirare la cinghia non la fa impazzire, evidentemente. Gli ha chiesto di accompagnarla a un festival di cinema a Bologna. Lui ha controllato il conto e ha detto che non poteva. Gli ha proposto di andare in settimana bianca con amici. Lui ha controllato il conto e ha detto che non poteva. Gli ha ricordato che il giorno del loro anniversario era vicino, forse era il caso di prenotare in un bel ristorantino, lui ha dato un’occhiata al conto e ha concluso che forse era meglio una pizzeria. E a quel punto lei si è ricordata di un loro amico, Gianni, da sempre innamorato di lei, da sempre figlio di un padre ricchissimo. Adesso stanno insieme da due mesi. E sono felici, a quanto si dice. Vinicio controlla il conto e conclude che non c’è proprio nulla di cui essere felici. Si accende una sigaretta. La terza. Non male, per uno che non fuma e non può nemmeno permetterselo. In quell’istante sente un terribile rumore dal Pc. Come se un sassolino stesse rotolando tra i circuiti e cadesse pian piano sul fondo dello schermo. Alza gli occhi sul monitor. Nero. Vinicio respira a fondo. Eccolo il secondo, gigantesco “che fare” della giornata. Prova a premere il tasto dell’accensione. Niente. Riprova. Niente. È finito pure il suono. È finito tutto. Il computer è andato. La sigaretta si è spenta. Ma l’accendino non c’è, è ancora sotto l’armadio, e i cerini sono finiti. Morde con troppa forza il filtro dell’accendino. La carta si rompe, il tabacco si rovescia su tutta la scrivania. Un bel casino. Vinicio sente qualcosa che gli risale dallo stomaco, gli passeggia su per il tubo digerente, gli si rovescia in gola, lo costringe a spalancare la bocca, lo spinge a urlare. La rabbia. Così forte che invade ogni spazio, riempie e calma il suo animo, si sostituisce a tutti gli altri sentimenti, si fa perfetta. E all’improvviso Vinicio capisce tutto. La verità lo assale con una chiarezza quasi imbarazzante, con una evidenza assoluta. E finalmente sa, comprende che tutto fa parte di un piano unico, che tutto si regge insieme, che ogni cosa è conseguenza e causa di un’altra. A cominciare dal suo nome, Vinicio Ignazio Lentini, così esageratamente lungo e spocchioso, così inadatto a lui. E poi il suo computer, i soldi buttati nel cesso, il datore di lavoro che assorbe un altro studio, ristruttura l’organico, come dice lui, e ti ritrovi in mezzo alla strada, Chiara che promette amore eterno e si scopa un altro, le sigarette non fumate e il gas finito nell’accendino: niente è casuale. Ogni singolo anello costruisce una lunghissima catena, così lunga che non riesci a vederla, così lunga che non puoi neanche immaginarla, è quasi impossibile credere che esista. E invece la catena c’è, e pian piano ti si lega intorno al collo, e stringe. E Vinicio capisce che il suo obiettivo da oggi in poi non potrà essere che quello di liberare se stesso e magari gli altri dalla catena, da ogni singolo anello, dalla scia invisibile che si stringe ogni giorno di più.
E all’improvviso capisce che fare.
Sandro

giovedì 18 giugno 2009

Le passanti


LE PASSANTI

Mi avevano preso per pazzo. Un pazzo, sporco, puzzolente e persino dissidente.

Sono stato in carcere quindici anni per questo. Carcere e non manicomio dove curare la mia follia. I matti, i delinquenti, i criminali. Tutti la stessa cosa, tutti da legare e rinchiudere al buio.

Dettero fuoco allo studio dove facevo il pittore. Puzzava come me, con il mio stesso odore di irrazionalità. I miei colori, le tele e i pennelli erano stati puniti in modo esemplare dal fuoco. La vecchia tradizione di bruciare gli untori e le streghe.

A me però non mi volevano morto, ma in galera, chiuso, legato, vinto. Dovevo muovermi e lavorare a comando, dovevo ubbidire. Volevano farci diventare tutti uguali, remissivi, ubbidienti. Dovevo pensare come pensavano gli altri, agire come agivano gli altri. Dovevo annullarmi. Chiamavano l’apatia normalità, perché era più facile da comandare, da ordinare.

Fu un medico un giorno a chiedere di scagionarmi: “Perché tenete legato questo qui? Non è mica un criminale, è un povero pazzo, un povero malato di mente. Scioglietelo!”. Ma neanche lui era più illuminato degli altri e sperava che di nuovo con il corpo libero mi sarei convinto a fare il servo. Domata la mia originalità, sperava che non sarei più stato una minaccia.

Io non ero arrabbiato, eppure sentivo l’urgenza di vendicarmi. Il modo migliore per farlo era ignorarli, sottrarsi al controllo, alla manipolazione, alla collettività. Sottrarsi persino alla lotta violenta delle parole, degli scontri, delle manifestazioni. Essere indipendente, restare indipendente.

Mi avevano braccato in strada e in strada tornai. Dietro ai cassonetti, a raccattare i vetri, i fondi di bottiglia, le latte di alluminio, strisce di stoffa e cordicelle resistenti. Nei cantieri prendevo un po’ di catrame. E gli scarti messi insieme in modo diverso diventarono una fotocamera. Qualche anno prima Picasso aveva fatto una testa di toro con un sellino e un manubrio, mi aveva suggerito questo modo di fare, forse.

Fotografai. Imprimendo le figure come fa la luce negli occhi.

Erano immagini di donne. Quelle che amavo e accompagnavo per tratti di vita, fino al momento di separarsi, lasciarsi andare ad altre avventure, senza dimenticarsi, senza seguirsi.

Ho fotografato le donne che dopo il piacere dell’orgasmo mi hanno reso libero. Restavano qualche attimo nude con il pensiero annebbiato, come se la mente si fosse diluita nell’acqua e avesse trovato una sensibilità diversa, e la pelle luccicava di piacere. Poi si rivestivano, in quel modo timido ed elegante da costringermi a desiderarle di nuovo.

Quelle stese al sole di un parco cittadino consapevoli della loro bellezza. Si muovevano come prestigiatori, misteriose anche nell’atto banale di bere un liquido dolciastro dal collo di una bottiglia.

Erano donne che buttavano la spazzatura, con la soddisfazione di aver eliminato il vecchio.

Le coglievo mentre scendevano dai treni. Accaldate e spettinate, coraggiose.

O pedalando su una bicicletta e i seni, anche se piccoli, incapaci di stare fermi.

Mentre si voltavano al richiamo di un’amica e avevano l’espressione della sorpresa, della meraviglia. Mi sembrava preziosa, un ricordo utile nei momenti di nostalgia.

Ho fotografato una donna magra, mora, indipendente. Non aveva paura di stare da sola.

L’ho incontrata di nuovo. Aveva le gambe accavallate, ha condiviso con me tre anni di vita. A lei ho dedicato i migliori scatti, forse perché l’avevo capita. Ci siamo dovuti dividere, come a volte succede per non diventare trappola che limita l’altro. Ma non l’ho scordata. Le impronte delle mie dita sulla stampa volevo che fossero per lei: quando l’ho vista emergere dagli acidi di sviluppo e c’ho immerso le mie mani per tirarla fuori da lì, ho pensato che lei avrebbe apprezzato che le mie impronte sarebbero ormai rimaste indelebili.

Ho imparato tutto dalle donne. A guardare e vedere.

Ho imparato soprattutto quanto fossero inconsapevoli della loro importanza per gli uomini, totalmente ignare del fatto che la loro imperfezione ci costringe a essere uomini. Solo per questo motivo le ho potute fotografare senza paura. E loro hanno giocato leggere.

Adesso vivo in una capanna nel bosco, sebbene mi abbiano offerto appartamenti luminosi. Vivevo qui anche prima del carcere e molto prima di diventare conosciuto per i ritratti.

Un giorno il postino li ha visti e mi ha reso un fotografo famoso. Ora lui non fa più il postino e io ho l’acqua calda in casa. Ne avevo bisogno.

Hanno allestito mostre nei musei più illustri con i miei scatti. La mia macchina fotografica è stata messa in una teca e a lungo è stata ammirata come segno delle potenzialità umane. Hanno avuto il piacere di scoprire che anche se si è poveri e sconosciuti si può avere una coscienza del proprio valore.

Qualcuno si è anche commosso di fronte a quelle immagini non del tutto definite di corpi e movimenti. Qualcun altro ha voluto di nuovo pensarmi pazzo. Un guardone. Un ossessivo. Un ciarlatano. Sostengono che scatto troppe foto al giorno e aberrano il fatto che il mio unico soggetto siano le donne; così come disapprovano che non le metta in posa, ma che come un ladro io rubi i loro sguardi. A questi signori non ho mai voluto dare delle spiegazioni, non credo di averne; ho fatto quello che mi sembrava più naturale fare. A volte però provo per loro compassione.

So che in giro mi chiamano Tarzan. Forse per la barba incolta. Credo che abbiano ragione a chiamarmi così: come lui non ho mai avuto né madri né padri.

Ho ottantatre anni e hanno smesso di invitarmi alle mie mostre, non amo autocelebrarmi. Anche se sono un riconoscibilissimo barbone non ho voluto arricchirmi con il mio lavoro, solo il necessario per soddisfare i bisogni materiali, ma niente di più; non voglio confondermi e rischiare di diventare folle davvero.

Spesso cammino senza meta, senza scopo.

A volte ho ripensato al carcere, ma più spesso ho ricordato i miei settantasette anni, quando di nuovo mi sono innamorato. Era una donna che leggeva parole arabe, a me sembravano suono e più del significato delle sue poesie mi sono lasciato andare a quel canto sussurrato e alla spalla destra scoperta per il troppo calore.

Posso dire di essere un uomo calmo e, a modo mio, credo di averla indovinata la vita.

Ancora oggi, per esempio, continuo ad avere la sensazione di dover cercare qualcosa, di non aver finito di scoprirla.

Lisa

(liberamente ispirato a Miroslav Tichy)

mercoledì 27 maggio 2009

Nulla è sicuro, ma scrivi

Le aveva detto che l’amore era bello, ma non si poteva fare sempre.
Era stata un’estate di letti accaldati, lenzuola sudate, docce fredde e leggerezza.
Lei avrebbe voluto rispondere: “sti cazzi”, ma poi aveva solo sorriso.
Mesi dopo pensò che lo stesso si poteva dire della scrittura.
Non la si può fare sempre.
Non la si può fare sempre nello stesso modo.
Lisa

In Italia non c'è dittatura, c'è idiozia


Dal Corriere della Sera, 26/05


NOTTE AL MUSEO 2, VIA LA BATTUTA ANTIPREMIER

Berlusconi resta pronipote di Napoleone (nella foto Stiller con Chabat), ma ora "tout le monde lo ama": è cambiata la battuta nel film Notte al museo 2, che secondo una prima anticipazione recitava "c'è pure chi lo ama". A darne notizia è sempre Tv sorrisi e canzoni, che aveva anche raccontato la precedente versione. "Ho tanti discendenti in Italia- dice Bonaparte nel film - Uno di loro è alla mia altezza, è un pezzo grosso, è un uomo molto potente e spiritoso... Una volta cantava sulle navi". La battuta seguente sarebbe quella cambiata. La versione pubblicata da Sorrisi la prima volta risulta però da un documento ufficiale: la lista dialoghi usata dai doppiatori. Perchè il cambio? Osvaldo de Santis, presidente e ad della 20th Century Fox Italia, spiega che "la nuova battuta ci è sembrata più carina con quel tout le monde che le dona un aroma francese".

sabato 16 maggio 2009

Il no è diversa dal non

Era arrivato un insopprimibile conato di rifiuto.
Buttato su una poltrona di velluto verde vide tutto ciò che non era più disposto a sopportare.
Sorpassate le questioni di poco conto, restarono chiari i no che avrebbe detto.
Lisa

In Italia non c'è dittatura, c'è idiozia

giovedì 14 maggio 2009

Buoni propositi

Finito Antipolitica, prometto che posterò solo cose brevi e divertenti...
Sandro