giovedì 18 giugno 2009

Le passanti


LE PASSANTI

Mi avevano preso per pazzo. Un pazzo, sporco, puzzolente e persino dissidente.

Sono stato in carcere quindici anni per questo. Carcere e non manicomio dove curare la mia follia. I matti, i delinquenti, i criminali. Tutti la stessa cosa, tutti da legare e rinchiudere al buio.

Dettero fuoco allo studio dove facevo il pittore. Puzzava come me, con il mio stesso odore di irrazionalità. I miei colori, le tele e i pennelli erano stati puniti in modo esemplare dal fuoco. La vecchia tradizione di bruciare gli untori e le streghe.

A me però non mi volevano morto, ma in galera, chiuso, legato, vinto. Dovevo muovermi e lavorare a comando, dovevo ubbidire. Volevano farci diventare tutti uguali, remissivi, ubbidienti. Dovevo pensare come pensavano gli altri, agire come agivano gli altri. Dovevo annullarmi. Chiamavano l’apatia normalità, perché era più facile da comandare, da ordinare.

Fu un medico un giorno a chiedere di scagionarmi: “Perché tenete legato questo qui? Non è mica un criminale, è un povero pazzo, un povero malato di mente. Scioglietelo!”. Ma neanche lui era più illuminato degli altri e sperava che di nuovo con il corpo libero mi sarei convinto a fare il servo. Domata la mia originalità, sperava che non sarei più stato una minaccia.

Io non ero arrabbiato, eppure sentivo l’urgenza di vendicarmi. Il modo migliore per farlo era ignorarli, sottrarsi al controllo, alla manipolazione, alla collettività. Sottrarsi persino alla lotta violenta delle parole, degli scontri, delle manifestazioni. Essere indipendente, restare indipendente.

Mi avevano braccato in strada e in strada tornai. Dietro ai cassonetti, a raccattare i vetri, i fondi di bottiglia, le latte di alluminio, strisce di stoffa e cordicelle resistenti. Nei cantieri prendevo un po’ di catrame. E gli scarti messi insieme in modo diverso diventarono una fotocamera. Qualche anno prima Picasso aveva fatto una testa di toro con un sellino e un manubrio, mi aveva suggerito questo modo di fare, forse.

Fotografai. Imprimendo le figure come fa la luce negli occhi.

Erano immagini di donne. Quelle che amavo e accompagnavo per tratti di vita, fino al momento di separarsi, lasciarsi andare ad altre avventure, senza dimenticarsi, senza seguirsi.

Ho fotografato le donne che dopo il piacere dell’orgasmo mi hanno reso libero. Restavano qualche attimo nude con il pensiero annebbiato, come se la mente si fosse diluita nell’acqua e avesse trovato una sensibilità diversa, e la pelle luccicava di piacere. Poi si rivestivano, in quel modo timido ed elegante da costringermi a desiderarle di nuovo.

Quelle stese al sole di un parco cittadino consapevoli della loro bellezza. Si muovevano come prestigiatori, misteriose anche nell’atto banale di bere un liquido dolciastro dal collo di una bottiglia.

Erano donne che buttavano la spazzatura, con la soddisfazione di aver eliminato il vecchio.

Le coglievo mentre scendevano dai treni. Accaldate e spettinate, coraggiose.

O pedalando su una bicicletta e i seni, anche se piccoli, incapaci di stare fermi.

Mentre si voltavano al richiamo di un’amica e avevano l’espressione della sorpresa, della meraviglia. Mi sembrava preziosa, un ricordo utile nei momenti di nostalgia.

Ho fotografato una donna magra, mora, indipendente. Non aveva paura di stare da sola.

L’ho incontrata di nuovo. Aveva le gambe accavallate, ha condiviso con me tre anni di vita. A lei ho dedicato i migliori scatti, forse perché l’avevo capita. Ci siamo dovuti dividere, come a volte succede per non diventare trappola che limita l’altro. Ma non l’ho scordata. Le impronte delle mie dita sulla stampa volevo che fossero per lei: quando l’ho vista emergere dagli acidi di sviluppo e c’ho immerso le mie mani per tirarla fuori da lì, ho pensato che lei avrebbe apprezzato che le mie impronte sarebbero ormai rimaste indelebili.

Ho imparato tutto dalle donne. A guardare e vedere.

Ho imparato soprattutto quanto fossero inconsapevoli della loro importanza per gli uomini, totalmente ignare del fatto che la loro imperfezione ci costringe a essere uomini. Solo per questo motivo le ho potute fotografare senza paura. E loro hanno giocato leggere.

Adesso vivo in una capanna nel bosco, sebbene mi abbiano offerto appartamenti luminosi. Vivevo qui anche prima del carcere e molto prima di diventare conosciuto per i ritratti.

Un giorno il postino li ha visti e mi ha reso un fotografo famoso. Ora lui non fa più il postino e io ho l’acqua calda in casa. Ne avevo bisogno.

Hanno allestito mostre nei musei più illustri con i miei scatti. La mia macchina fotografica è stata messa in una teca e a lungo è stata ammirata come segno delle potenzialità umane. Hanno avuto il piacere di scoprire che anche se si è poveri e sconosciuti si può avere una coscienza del proprio valore.

Qualcuno si è anche commosso di fronte a quelle immagini non del tutto definite di corpi e movimenti. Qualcun altro ha voluto di nuovo pensarmi pazzo. Un guardone. Un ossessivo. Un ciarlatano. Sostengono che scatto troppe foto al giorno e aberrano il fatto che il mio unico soggetto siano le donne; così come disapprovano che non le metta in posa, ma che come un ladro io rubi i loro sguardi. A questi signori non ho mai voluto dare delle spiegazioni, non credo di averne; ho fatto quello che mi sembrava più naturale fare. A volte però provo per loro compassione.

So che in giro mi chiamano Tarzan. Forse per la barba incolta. Credo che abbiano ragione a chiamarmi così: come lui non ho mai avuto né madri né padri.

Ho ottantatre anni e hanno smesso di invitarmi alle mie mostre, non amo autocelebrarmi. Anche se sono un riconoscibilissimo barbone non ho voluto arricchirmi con il mio lavoro, solo il necessario per soddisfare i bisogni materiali, ma niente di più; non voglio confondermi e rischiare di diventare folle davvero.

Spesso cammino senza meta, senza scopo.

A volte ho ripensato al carcere, ma più spesso ho ricordato i miei settantasette anni, quando di nuovo mi sono innamorato. Era una donna che leggeva parole arabe, a me sembravano suono e più del significato delle sue poesie mi sono lasciato andare a quel canto sussurrato e alla spalla destra scoperta per il troppo calore.

Posso dire di essere un uomo calmo e, a modo mio, credo di averla indovinata la vita.

Ancora oggi, per esempio, continuo ad avere la sensazione di dover cercare qualcosa, di non aver finito di scoprirla.

Lisa

(liberamente ispirato a Miroslav Tichy)

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