
L’esempio dei venti spopolò e si diffuse e fu copiato. Le teche di vetro finirono nelle primissime ore della mattina successiva. Tutti volevano dimostrare che erano stati risparmiati dalla morte, che le loro feci erano dure e sane come non mai, che erano gli eletti, degni di seguire i nuovi leader. Il fiume dell’ultima pioggia li aveva risparmiati, perché li aveva riconosciuti, e sapeva che loro non erano immondizia. Finite le teche di vetro, la gente defecò in acquari, vasche, specchi, bicchieri e pentole, si ributtò in strada mostrando a tutti, a vicenda, le proprie deiezioni, vantandosi e confrontandosi, invidiando e ammirando i più begli esemplari. Nuove gerarchie sociali nacquero, altre si infransero, la purezza delle feci era l’unica qualità su cui ormai si poteva fare affidamento per giudicare il prossimo. Vecchi rapporti di potere si ribaltavano alla semplice vista di un materiale organico un po’ molliccio. Alle diciotto la gente iniziò a radunarsi in Piazza del Popolo. Si formò una folla ancora più mastodontica del giorno prima, una folle enorme e ingestibile. Tutti portavano in qualche modo le loro feci con sé. Era un dono che si scambiavano a vicenda, il sacrificio per suggellare un nuovo patto.
Alle venti in punto arrivò il nuovo capo con i suoi diciannove sottoposti. La Nuova Maggioranza con tuniche bianche, la Nuova Opposizione con tuniche nere. Incappucciati e silenziosi, si disposero intorno al nuovo capo, vestito con una lunga e semplice tunica dorata.
Risalì sul palco, che nessuno aveva avuto l’ardire di toccare dal giorno prima, fosse anche solo per pulirlo. Salì sul palco, prese il microfono, e iniziò a parlare. Era Dio, e avrebbe dettato le tavole della legge al suo popolo.
Il suo discorso fu molto breve questa volta, e non ci sarebbe stato alcun bisogno, del resto, di una sola parola in più. Lo spettacolo di venti incappucciati su un palco era abbastanza potente, e sarebbe stata più che sufficiente per qualsiasi pubblico. Disse poche cose, in ordine logico e con calma. Elogiò la saggezza del popolo, che aveva bruciato i corrotti palazzi del potere da cui era partita la furia distruttrice della peste. Elogiò il fuoco che aveva purificato gli immondi luoghi. Elogiò la durezza delle proprie feci. Fuoco e merda, disse. Fuoco e merda, ripeté. Fuoco e merda, ripeté la folla. Fuoco e merda, urlò la folla. Uno degli incappucciati bianchi andò a prendere la teca di vetro del giorno prima, e di nuovo la mostrò alla folla urlante. Uno degli incappucciati neri andò a prendere un bastone con uno straccio avvolto in cima, e lo passò al capo. Il capo prese una tanica di benzina, cosparse di materiale infiammabile lo straccio, e diede fuoco. La folla ruggì. Il capo avvicinò la torcia al legno del palco. Le fiamme iniziarono subito ad ardere. Centinaia di migliaia di persone tornarono in un secondo indietro di migliaia di anni, quando nelle caverne osservavano affascinati bagliori rossi dentro caverne pitturate.
Seguitemi, urlò il capo dentro al suo microfono. Gli incappucciati lo seguirono, tenendo ciascuno bene alta la propria teca. Milioni di persone lo seguirono, con le torce in mano.
Fuoco e merda, dicevano, e davano fuoco a un palazzo.
Fuoco e merda, urlavano, e davano fuoco a una casa.
Era un Dio abbastanza pazzo.
La folla non si saziò che dopo tutta una notte di incendi.
Roma bruciava. Non un solo edificio era rimasto in piedi, migliaia erano morti soffocati, migliaia erano morti bruciati.
L’Italia bruciava, il fuoco non si poteva più controllare, tutta l’acqua di tutti gli aerei antincendio non avrebbe potuto nulla contro il mostruoso disastro incandescente.
I pochi ancora in vita gioivano e gridavano esaltati.
Finiva così una grande città.
Finiva così un grande paese.
Fuoco e merda.
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