lunedì 4 maggio 2009

Antipolitica/sesta parte


“Colleghi”, disse, e gli mancò il fiato. Accorsero inservienti, uscieri, parlamentari. Stava evidentemente male.
“Colleghi”, ripeté, ma il fiato non gli usciva, era a pezzi, evidentemente incapace di muoversi, di agire, di parlare. Non avrebbe mai interrotto un importante discorso sul Nulla Assoluto se non vi fosse stato costretto.
“Colleghi”, disse ancora, e ancora la voce gli venne meno, il respirò si bloccò.
Fategli aria, disse qualcuno, lasciatelo respirare, insomma, allontanatevi.
Le sagge parole sortirono il loro effetto: la calca si allontanò, il Primo Ministro ebbe tempo di inalare profondamente, cercare di riprendersi e dire qualcosa, anzi, rilasciare una qualche dichiarazione, cosa che del resto era alla base di tutto il suo lavoro.
“Colleghi”, disse infine, circondato da unanime curiosità e apprensione.
“Colleghi, portatemi al cesso, vi supplico”
La penna cadde dalla mano del giornalista sorteggiato. Era una bella sorpresa. Il Primo Ministro era andato fuori tema per la prima volta in vita sua, e aveva detto qualcosa. Il mondo della politica sarebbe rimasto sconvolto. Ce n’era a sufficienza da far cadere due governi. Un brusio, presto un urlo, si scatenò tra i banchi.
I parlamentari dell’Opposizione Compiacente stavano già per urlare le fatidiche parole - dimissioni, dimissioni, dimissioni- quando il problema di chi far sedere sulla poltrona più prestigiosa del Paese divenne all’improvviso del tutto secondario. Una puzza tremenda impestò la prestigiosa aula. Divenne chiaro almeno dove si sarebbe dovuto sedere il Primo Ministro, e cioè sulla tazza del cesso, e anche che l’avrebbe dovuto fare prima, molto prima. Il Primo Ministro, nonostante l’arrivo istantaneo di una enorme quantità di dottori, morì in meno di quaranta minuti.


La poltrona prestigiosa del Primo Ministro, la poltrona per cui politici e uomini di potere avevano tramato e intrigato e battagliato, perse molto del suo appeal quando fu evidente che era stata sporcata nel più oltraggioso dei modi. Ma quel fatidico giorno, con il premier che cadeva per terra, la puzza che si spandeva nell’Aula e le urla dei deputati, a nessuno venne in mente di preoccuparsi di particolari così futili come il decoro e la pulizia. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a pieni polmoni uno dei suoi slogan politici - devi morire, devi morire. Era uno dei suoi cavalli di battaglia preferiti, perché a suo parere rivelava le sue origini da uomo comune: un uomo che veniva dalla strada, e con ancora maggior precisione, dalla curva dello stadio. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a squarciagola quando si accasciò a terra. Verde. La sua morte fu ancora più rapida di quella del Primo Ministro, e la sua puzza ancora più disastrosa. Il suo fedele braccio destro era con lui dai tempi degli insulti xenofobi contro i tifosi napoletani durante i Lazio-Napoli. Quando lo vide accasciarsi, si ricordò, tremando e piangendo, di tutti i bei momenti vissuti insieme. Quella volta che per lui aveva compiuto l’enorme sacrificio di rinunciare alla paternità dello striscione, Per una Napoli pulita, vota Vesuvio: aveva ammesso pubblicamente che l’idea era stata del suo capo, che era tutto merito suo, e gli aveva conquistato gloria imperitura, e il voto fedele e sicuro di mezzo milione di laziali. Non deve sorprendere quindi il fatto che fu lui il primo a chinarsi per sincerarsi della salute del leader dell’Opposizione Compiacente. Riuscì a vincere il ribrezzo. Riuscì a vincere la paura, la confusione terribile dell’aula, il colorito malsano e infetto dell’uomo steso ai suoi piedi, tutto in nome dell’amore e dell’affetto verso il suo mentore. Riuscì a vincere tutto, e si chinò. Non si rialzò mai più. Non riuscì infatti a vincere la terribile malattia, che lo fece diventare istantaneamente verde, gli prosciugò intestini e fluidi, e lo lasciò a morire, donandogli però il privilegio di condividere la stessa sorte del suo capo. Dallo stadio, al Parlamento, alla tomba. Sempre insieme. La faccia del fedele braccio destro, nonostante la puzza e i dolori terribili, si dipinse in un sorriso.
Incredibile confusione. Il Consiglio dei Ministri, all’unisono, defecò tutto il meraviglioso pasto consumato a mezzogiorno nel lussuoso ristorante privato: si deve dire, a onore dello chef fatto venire appositamente dalla dolce Francia, che, quando era stato servito in tavola, l’agnello era sicuramente più appetitoso della fetida poltiglia verdastra in cui era stato trasformato, e che adesso infestava i banchi parlamentari. L’Opposizione Compiacente poté gridare ben poco, anzi, per l’esattezza fu costretta a smettere subito le urla di protesta contro il premier: in realtà tutti continuarono a strepitare, ma erano ormai grida di sofferenza, dolore e paura. Altri novantotto parlamentari caddero per terra, seguendo la sorte del leader e del braccio destro. Stessa cosa, con mirabile par condicio, capitò agli esponenti del Partito della Conservazione Reazionaria, attualmente al Governo, e a quelli del Centro Sempre e Comunque al Potere. Duecento uomini, cento dei primi e cento dei secondi, precipitarono giù dai loro scranni, soffocati dalle loro stesse deiezioni. Il Paese perdeva centinaia delle migliori menti, il fiore dei figli sbocciati dal suo florido seno. La società rimaneva senza guida. L’aula per una volta smise di essere sorda e grigia, e divenne un caotico regno di urla e lamenti su uno sfondo marroncino e maleodorante. Ettolitri di liquami poco nobili vennero versati da nobili e onorati corpi. Manipoli di inservienti bivaccavano correndo come disperati da un leader all’altro, cercando invano di salvare i salvabili. La puzza che usciva dal Parlamento invase il centro di Roma, via dei Condotti, piazza di Spagna, mise in fuga i turisti nipponici e corrose le antiche mura del Colosseo che ne ricevettero un danno permanente. Quel giorno venne ricordato, con un’ironia del tutto fuori luogo, come il Venerdì marrone. Trecentotrentuno parlamentari erano morti in meno di due ore. Un’intera classe dirigente spazzata via nello spazio di un intervento parlamentare.
Dai banchi orribilmente sporchi, da sotto le poltrone stracolme di cadaveri, quando il silenzio tornò a regnare, emersero, timidi, solo venti sopravvissuti. Erano parlamentari alla prima legislatura, i più sfigati, di destra e di sinistra, non si erano aggiudicati neanche un posticino misero da aiuto sottosegretario. Si rialzarono da sotto le sedie, dove si erano nascosti durante il delirio e la confusione, e dapprima non si capacitarono di essere scampati alla terribile sorte che aveva colpito tutti i loro superiori. Pensarono in un primo tempo, seguendo la logica e la disciplina di partito, che anche loro erano morti, anzi, erano morti per primi, in rigoroso ordine meritocratico. Si è mai vista una guerra in cui muoiono re e generali e ambasciatori e sopravvivono umili fanti? Ma la realtà era innegabile. I venti si tastarono, controllarono bene, ricontrollarono nuovamente. Tutti i loro capi erano morti. Loro erano vivi. Si sorrisero, mettendo da parte per una volta le differenze politiche che li dividevano. Guardarono i loro capi senza vita e senza budella, e sorrisero di nuovo. Poi scapparono fuori, in cerca di aria pulita. Si misero a correre, pensando con un fugace barlume di preoccupazione che, l’indomani mattina, gli sguatteri statali avrebbero avuto un bel daffare, a pulire tutto quel casino.
Sandro

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