venerdì 8 maggio 2009

Antipolitica/decima parte


I venti si riunirono. Raggiunsero, a piedi, in ordine compatto, Piazza del Popolo. Portavano con sé assi, legname, chiodi e martelli. Nessuno di loro aveva mai fatto il falegname, ma avrebbero imparato. Del resto, tutti gli altri operai erano morti, o se non erano morti non avrebbero mai accettato di mettersi al lavoro in quei momenti, in mezzo a quella carneficina. I venti lavorarono indefessamente, incuranti dei curiosi, incuranti della gente che moriva lì accanto, a pochi passi, persino sulla struttura che stavano erigendo, persino tra i loro piedi. Non rispondevano a domande né minacce. Facevano la faccia impegnata, rispondevano aspettate, rispondevano sappiamo quello che stiamo facendo, e lo stiamo facendo per voi. E non era poco, in un momento in cui tutti facevano qualsiasi cosa solo per se stessi, e soprattutto senza avere la minima idea di cosa fosse giusto fare.
In breve si radunò una folla immensa in Piazza del Popolo. I venti continuavano a lavorare, senza sosta. Dato che tutti i tentativi di avere delucidazioni erano andati a vuoto, la folla, incuriosita e nervosa, iniziò a darsi da fare, pur di abbreviare i tempi: chi portava i chiodi, chi issava le assi, chi tirava martellate, chi saldava travi, in breve il lavoro fu terminato. Era quasi notte, ma ci si vedeva.
La costruzione risultò essere un enorme palco. Una sedia era al centro del palco. Era una sedia particolare, di pregevole fattura, proveniente dal salotto migliore del nuovo capo dei venti. Gli era stata però apportata una fondamentale modifica: al centro, la sedia aveva un buco, di una trentina di centimetri di diametro, realizzato senza troppi complimenti a pedate e martellate. Sotto il buco, era stata posta la teca di vetro, aperta. Dietro la prima sedia, altre diciannove sedie erano allineate in seconda fila. Tutte bucate al centro, tutte con la loro brava teca di vetro aperta sotto.
Tutto era pronto. La folla tratteneva il respiro, le più improbabili deduzioni venivano avanzate.
Il capo dei venti, seguendo sempre l’istinto che funzionava così brillantemente in quei giorni di crisi, decise di dare inizio allo spettacolo. Salì sul palco. Qualche timido applauso si levò dall’oceanico pubblico.
Invitò i diciannove a seguirlo.
Altri timidi applausi. Poi i venti in sincrono si calarono le brache, si abbassarono le mutande, e posarono le terga sui venti innovativi scranni.
E a questo punto il capo prese la parola. Non aveva mai parlato davanti a così tanta gente, ma quella era la sua occasione, e non poteva fallire. E poi, molte cose erano cambiate. Lui era cambiato, in quei giorni. Non era più un oscuro funzionario di partito. Prima gli si prospettavano anni di subordinazione e di prona accettazione di voleri superiori. Prima doveva passare carte, eseguire ordini, tacere e parlare a comando. Adesso era l’unico in Italia a sapere cosa si doveva fare, e nessuno era più importante di lui. Presto, se fosse andato tutto bene, folle sarebbero state pronte a eseguire ogni suo più futile ordine espresso con il più impercettibile segno del capo. Quella che si dice una fulminea carriera. Il capo dei venti era ormai Dio, e aveva iniziato a cadere in una leggera megalomania. Non aveva nessuna fretta. Seduto sul suo cesso all’aperto, sentiva di avere sotto le sue ormai nobili chiappe un trono, di più, un altare. Le contrazioni del suo apparato digestivo erano ancora lontane, ma non bisognava sforzarsi, bisognava lasciare fare alla natura. Tanto, la folla era ormai radunata, il passaparola aveva convogliato nella piazza centinaia di migliaia di persone, e nessuno se ne sarebbe andato prima del dovuto.
Il capo iniziò a parlare, strano a dirsi, ma non aveva preparato nessun discorso, iniziò a declamare a braccio, seguendo solo l’ispirazione del momento. Erano lontani i tempi in cui per una semplice interrogazione personale metteva a lavorare sulla sua dichiarazione di due minuti e mezzo tutto il suo staff, e studiava tutto a memoria. Ma quello era prima di diventare Dio.
Sandro

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