
Parlò di molte cose, e la sua voce era forte e chiara, e il microfono non la storpiava, e tutti la potevano sentire. Disse che in Italia era tutto marcio, che tutto era sbagliato, che la merda era piovuta dal cielo come un dono, che il fiume di immondizia era come l’ultima pioggia, la più sporca, quella che fa esondare i fiumi e raccoglie tutti i rifiuti, e appesta i paesi con le sue tracimanti limacciosità, e a tutti sembra impossibile che quello sporco se ne possa mai andare. Ma il fiume dell’ultima pioggia poi si ritira con il caldo, e porta via tutto con sé, torna pulito nel suo letto. E l’immondizia è sparita. Usò metafore belle ed efficaci, stregò il suo pubblico, portò la folla all’esaltazione. Disse che non era un caso l’ordine con cui la morte marrone si era abbattuta sugli uomini, lasciando vivi gli uni, e svuotati e in decomposizione gli altri. Citò la bibbia, espose ricordi di sangue d’agnello e di case di primogeniti, e di angeli sterminatori. Disse che non era un caso se tutte le figure di potere erano state spazzate via dal fiume dell’ultima pioggia. Disse che non era un caso se in Parlamento erano morti tutti, tranne loro venti. I più puliti, i più inesperti, quelli che meno si erano potuti e dovuti sporcare le mani con la sozza fanghiglia degli accordi sottobanco. Parlò, sempre seduto nudo davanti a tutti, e nessuno pensò che quella fosse una posizione ridicola, e nessuno gli mancò di rispetto. Finì il suo discorso. Lo stimolo fatale arrivò proprio in quel momento. Con un leggero sforzo, una contrazione appena accennata dei muscoli, l’apparato digerente del capo effettuò, puntuale e preciso come un orologio, il compito finale con cui terminava tutta la sua lunga fatica. La teca di vetro, ultima discendente di reliquari e scrigni sacri di cui abbonda la storia patria, accolse con entusiasmo i sacri rifiuti. Compatti, solidi, indistruttibili. L’emblema della salute. L’alba di una nuova era. Il capo, con molta dignità, terminò le sue evacuazioni, si pulì con gesti rituali e lenti, chiuse la teca, la sigillò con mosse sapienti. La folla tratteneva il respiro. Alzò la teca in alto sopra la sua testa, e la mostrò a tutti. Centinaia di migliaia di persone esplosero in un unico grido di giubilo. Il capo non aveva più detto una parola, ma era entrato nei loro cuori con più forza che mai. Era un Dio con una naturale predisposizione ai colpi di teatro. Si mise pazientemente ad aspettare, seduto sulla sua teca sigillata. Attese che gli altri diciannove, chi prima e chi dopo, espletassero l’arduo compito per il quale si erano seduti sui loro augusti cessi. Uno alla volta, si pulivano, rilassavano il volto sfigurato dalla tensione e dalla spinta muscolare, sigillavano la teca e la mostravano alla folla plaudente in adorazione. Non c’era fretta. La Nuova Opposizione, un po’ a disagio con l’atmosfera liturgica e la massa di pellegrini sotto il palco, oltre che a causa di un naturale senso del pudore, faticò un po’ di più a portare a compimento i propri tentativi. Nello spazio di cinque ore, però, venti teche erano state mostrate alla folla, la notte era scesa, il Paese aveva di nuovo un governo, e la popolazione aveva nuovi leader da seguire.
Domani, alle venti, torneremo tutti qui, disse il capo con voce profonda ed espressione ispirata. Domani torneremo, e voi ascolterete di nuovo la mia parola. Io vi dirò cosa fare, disse. In realtà, non aveva molto chiaro cosa avrebbe detto precisamente l’indomani, ma sapeva che qualche cosa gli sarebbe venuta in mente. Era un Dio con una buona capacità di improvvisazione.
Sandro
confido in un epilogo non apocalittico bensì catartico
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