Le aveva detto che l’amore era bello, ma non si poteva fare sempre.
Era stata un’estate di letti accaldati, lenzuola sudate, docce fredde e leggerezza.
Lei avrebbe voluto rispondere: “sti cazzi”, ma poi aveva solo sorriso.
Mesi dopo pensò che lo stesso si poteva dire della scrittura.
Non la si può fare sempre.
Non la si può fare sempre nello stesso modo.
Lisa
mercoledì 27 maggio 2009
In Italia non c'è dittatura, c'è idiozia

Dal Corriere della Sera, 26/05
NOTTE AL MUSEO 2, VIA LA BATTUTA ANTIPREMIER
Berlusconi resta pronipote di Napoleone (nella foto Stiller con Chabat), ma ora "tout le monde lo ama": è cambiata la battuta nel film Notte al museo 2, che secondo una prima anticipazione recitava "c'è pure chi lo ama". A darne notizia è sempre Tv sorrisi e canzoni, che aveva anche raccontato la precedente versione. "Ho tanti discendenti in Italia- dice Bonaparte nel film - Uno di loro è alla mia altezza, è un pezzo grosso, è un uomo molto potente e spiritoso... Una volta cantava sulle navi". La battuta seguente sarebbe quella cambiata. La versione pubblicata da Sorrisi la prima volta risulta però da un documento ufficiale: la lista dialoghi usata dai doppiatori. Perchè il cambio? Osvaldo de Santis, presidente e ad della 20th Century Fox Italia, spiega che "la nuova battuta ci è sembrata più carina con quel tout le monde che le dona un aroma francese".
sabato 16 maggio 2009
Il no è diversa dal non
Era arrivato un insopprimibile conato di rifiuto.
Buttato su una poltrona di velluto verde vide tutto ciò che non era più disposto a sopportare.
Sorpassate le questioni di poco conto, restarono chiari i no che avrebbe detto.
Lisa
Buttato su una poltrona di velluto verde vide tutto ciò che non era più disposto a sopportare.
Sorpassate le questioni di poco conto, restarono chiari i no che avrebbe detto.
Lisa
giovedì 14 maggio 2009
mercoledì 13 maggio 2009
Antipolitica/dodicesima parte

L’esempio dei venti spopolò e si diffuse e fu copiato. Le teche di vetro finirono nelle primissime ore della mattina successiva. Tutti volevano dimostrare che erano stati risparmiati dalla morte, che le loro feci erano dure e sane come non mai, che erano gli eletti, degni di seguire i nuovi leader. Il fiume dell’ultima pioggia li aveva risparmiati, perché li aveva riconosciuti, e sapeva che loro non erano immondizia. Finite le teche di vetro, la gente defecò in acquari, vasche, specchi, bicchieri e pentole, si ributtò in strada mostrando a tutti, a vicenda, le proprie deiezioni, vantandosi e confrontandosi, invidiando e ammirando i più begli esemplari. Nuove gerarchie sociali nacquero, altre si infransero, la purezza delle feci era l’unica qualità su cui ormai si poteva fare affidamento per giudicare il prossimo. Vecchi rapporti di potere si ribaltavano alla semplice vista di un materiale organico un po’ molliccio. Alle diciotto la gente iniziò a radunarsi in Piazza del Popolo. Si formò una folla ancora più mastodontica del giorno prima, una folle enorme e ingestibile. Tutti portavano in qualche modo le loro feci con sé. Era un dono che si scambiavano a vicenda, il sacrificio per suggellare un nuovo patto.
Alle venti in punto arrivò il nuovo capo con i suoi diciannove sottoposti. La Nuova Maggioranza con tuniche bianche, la Nuova Opposizione con tuniche nere. Incappucciati e silenziosi, si disposero intorno al nuovo capo, vestito con una lunga e semplice tunica dorata.
Risalì sul palco, che nessuno aveva avuto l’ardire di toccare dal giorno prima, fosse anche solo per pulirlo. Salì sul palco, prese il microfono, e iniziò a parlare. Era Dio, e avrebbe dettato le tavole della legge al suo popolo.
Il suo discorso fu molto breve questa volta, e non ci sarebbe stato alcun bisogno, del resto, di una sola parola in più. Lo spettacolo di venti incappucciati su un palco era abbastanza potente, e sarebbe stata più che sufficiente per qualsiasi pubblico. Disse poche cose, in ordine logico e con calma. Elogiò la saggezza del popolo, che aveva bruciato i corrotti palazzi del potere da cui era partita la furia distruttrice della peste. Elogiò il fuoco che aveva purificato gli immondi luoghi. Elogiò la durezza delle proprie feci. Fuoco e merda, disse. Fuoco e merda, ripeté. Fuoco e merda, ripeté la folla. Fuoco e merda, urlò la folla. Uno degli incappucciati bianchi andò a prendere la teca di vetro del giorno prima, e di nuovo la mostrò alla folla urlante. Uno degli incappucciati neri andò a prendere un bastone con uno straccio avvolto in cima, e lo passò al capo. Il capo prese una tanica di benzina, cosparse di materiale infiammabile lo straccio, e diede fuoco. La folla ruggì. Il capo avvicinò la torcia al legno del palco. Le fiamme iniziarono subito ad ardere. Centinaia di migliaia di persone tornarono in un secondo indietro di migliaia di anni, quando nelle caverne osservavano affascinati bagliori rossi dentro caverne pitturate.
Seguitemi, urlò il capo dentro al suo microfono. Gli incappucciati lo seguirono, tenendo ciascuno bene alta la propria teca. Milioni di persone lo seguirono, con le torce in mano.
Fuoco e merda, dicevano, e davano fuoco a un palazzo.
Fuoco e merda, urlavano, e davano fuoco a una casa.
Era un Dio abbastanza pazzo.
La folla non si saziò che dopo tutta una notte di incendi.
Roma bruciava. Non un solo edificio era rimasto in piedi, migliaia erano morti soffocati, migliaia erano morti bruciati.
L’Italia bruciava, il fuoco non si poteva più controllare, tutta l’acqua di tutti gli aerei antincendio non avrebbe potuto nulla contro il mostruoso disastro incandescente.
I pochi ancora in vita gioivano e gridavano esaltati.
Finiva così una grande città.
Finiva così un grande paese.
Fuoco e merda.
sabato 9 maggio 2009
Antipolitica/undicesima parte

Parlò di molte cose, e la sua voce era forte e chiara, e il microfono non la storpiava, e tutti la potevano sentire. Disse che in Italia era tutto marcio, che tutto era sbagliato, che la merda era piovuta dal cielo come un dono, che il fiume di immondizia era come l’ultima pioggia, la più sporca, quella che fa esondare i fiumi e raccoglie tutti i rifiuti, e appesta i paesi con le sue tracimanti limacciosità, e a tutti sembra impossibile che quello sporco se ne possa mai andare. Ma il fiume dell’ultima pioggia poi si ritira con il caldo, e porta via tutto con sé, torna pulito nel suo letto. E l’immondizia è sparita. Usò metafore belle ed efficaci, stregò il suo pubblico, portò la folla all’esaltazione. Disse che non era un caso l’ordine con cui la morte marrone si era abbattuta sugli uomini, lasciando vivi gli uni, e svuotati e in decomposizione gli altri. Citò la bibbia, espose ricordi di sangue d’agnello e di case di primogeniti, e di angeli sterminatori. Disse che non era un caso se tutte le figure di potere erano state spazzate via dal fiume dell’ultima pioggia. Disse che non era un caso se in Parlamento erano morti tutti, tranne loro venti. I più puliti, i più inesperti, quelli che meno si erano potuti e dovuti sporcare le mani con la sozza fanghiglia degli accordi sottobanco. Parlò, sempre seduto nudo davanti a tutti, e nessuno pensò che quella fosse una posizione ridicola, e nessuno gli mancò di rispetto. Finì il suo discorso. Lo stimolo fatale arrivò proprio in quel momento. Con un leggero sforzo, una contrazione appena accennata dei muscoli, l’apparato digerente del capo effettuò, puntuale e preciso come un orologio, il compito finale con cui terminava tutta la sua lunga fatica. La teca di vetro, ultima discendente di reliquari e scrigni sacri di cui abbonda la storia patria, accolse con entusiasmo i sacri rifiuti. Compatti, solidi, indistruttibili. L’emblema della salute. L’alba di una nuova era. Il capo, con molta dignità, terminò le sue evacuazioni, si pulì con gesti rituali e lenti, chiuse la teca, la sigillò con mosse sapienti. La folla tratteneva il respiro. Alzò la teca in alto sopra la sua testa, e la mostrò a tutti. Centinaia di migliaia di persone esplosero in un unico grido di giubilo. Il capo non aveva più detto una parola, ma era entrato nei loro cuori con più forza che mai. Era un Dio con una naturale predisposizione ai colpi di teatro. Si mise pazientemente ad aspettare, seduto sulla sua teca sigillata. Attese che gli altri diciannove, chi prima e chi dopo, espletassero l’arduo compito per il quale si erano seduti sui loro augusti cessi. Uno alla volta, si pulivano, rilassavano il volto sfigurato dalla tensione e dalla spinta muscolare, sigillavano la teca e la mostravano alla folla plaudente in adorazione. Non c’era fretta. La Nuova Opposizione, un po’ a disagio con l’atmosfera liturgica e la massa di pellegrini sotto il palco, oltre che a causa di un naturale senso del pudore, faticò un po’ di più a portare a compimento i propri tentativi. Nello spazio di cinque ore, però, venti teche erano state mostrate alla folla, la notte era scesa, il Paese aveva di nuovo un governo, e la popolazione aveva nuovi leader da seguire.
Domani, alle venti, torneremo tutti qui, disse il capo con voce profonda ed espressione ispirata. Domani torneremo, e voi ascolterete di nuovo la mia parola. Io vi dirò cosa fare, disse. In realtà, non aveva molto chiaro cosa avrebbe detto precisamente l’indomani, ma sapeva che qualche cosa gli sarebbe venuta in mente. Era un Dio con una buona capacità di improvvisazione.
Sandro
venerdì 8 maggio 2009
Antipolitica/decima parte

I venti si riunirono. Raggiunsero, a piedi, in ordine compatto, Piazza del Popolo. Portavano con sé assi, legname, chiodi e martelli. Nessuno di loro aveva mai fatto il falegname, ma avrebbero imparato. Del resto, tutti gli altri operai erano morti, o se non erano morti non avrebbero mai accettato di mettersi al lavoro in quei momenti, in mezzo a quella carneficina. I venti lavorarono indefessamente, incuranti dei curiosi, incuranti della gente che moriva lì accanto, a pochi passi, persino sulla struttura che stavano erigendo, persino tra i loro piedi. Non rispondevano a domande né minacce. Facevano la faccia impegnata, rispondevano aspettate, rispondevano sappiamo quello che stiamo facendo, e lo stiamo facendo per voi. E non era poco, in un momento in cui tutti facevano qualsiasi cosa solo per se stessi, e soprattutto senza avere la minima idea di cosa fosse giusto fare.
In breve si radunò una folla immensa in Piazza del Popolo. I venti continuavano a lavorare, senza sosta. Dato che tutti i tentativi di avere delucidazioni erano andati a vuoto, la folla, incuriosita e nervosa, iniziò a darsi da fare, pur di abbreviare i tempi: chi portava i chiodi, chi issava le assi, chi tirava martellate, chi saldava travi, in breve il lavoro fu terminato. Era quasi notte, ma ci si vedeva.
La costruzione risultò essere un enorme palco. Una sedia era al centro del palco. Era una sedia particolare, di pregevole fattura, proveniente dal salotto migliore del nuovo capo dei venti. Gli era stata però apportata una fondamentale modifica: al centro, la sedia aveva un buco, di una trentina di centimetri di diametro, realizzato senza troppi complimenti a pedate e martellate. Sotto il buco, era stata posta la teca di vetro, aperta. Dietro la prima sedia, altre diciannove sedie erano allineate in seconda fila. Tutte bucate al centro, tutte con la loro brava teca di vetro aperta sotto.
Tutto era pronto. La folla tratteneva il respiro, le più improbabili deduzioni venivano avanzate.
Il capo dei venti, seguendo sempre l’istinto che funzionava così brillantemente in quei giorni di crisi, decise di dare inizio allo spettacolo. Salì sul palco. Qualche timido applauso si levò dall’oceanico pubblico.
Invitò i diciannove a seguirlo.
Altri timidi applausi. Poi i venti in sincrono si calarono le brache, si abbassarono le mutande, e posarono le terga sui venti innovativi scranni.
E a questo punto il capo prese la parola. Non aveva mai parlato davanti a così tanta gente, ma quella era la sua occasione, e non poteva fallire. E poi, molte cose erano cambiate. Lui era cambiato, in quei giorni. Non era più un oscuro funzionario di partito. Prima gli si prospettavano anni di subordinazione e di prona accettazione di voleri superiori. Prima doveva passare carte, eseguire ordini, tacere e parlare a comando. Adesso era l’unico in Italia a sapere cosa si doveva fare, e nessuno era più importante di lui. Presto, se fosse andato tutto bene, folle sarebbero state pronte a eseguire ogni suo più futile ordine espresso con il più impercettibile segno del capo. Quella che si dice una fulminea carriera. Il capo dei venti era ormai Dio, e aveva iniziato a cadere in una leggera megalomania. Non aveva nessuna fretta. Seduto sul suo cesso all’aperto, sentiva di avere sotto le sue ormai nobili chiappe un trono, di più, un altare. Le contrazioni del suo apparato digestivo erano ancora lontane, ma non bisognava sforzarsi, bisognava lasciare fare alla natura. Tanto, la folla era ormai radunata, il passaparola aveva convogliato nella piazza centinaia di migliaia di persone, e nessuno se ne sarebbe andato prima del dovuto.
Il capo iniziò a parlare, strano a dirsi, ma non aveva preparato nessun discorso, iniziò a declamare a braccio, seguendo solo l’ispirazione del momento. Erano lontani i tempi in cui per una semplice interrogazione personale metteva a lavorare sulla sua dichiarazione di due minuti e mezzo tutto il suo staff, e studiava tutto a memoria. Ma quello era prima di diventare Dio.
Sandro
giovedì 7 maggio 2009
Antipolitica/nona parte

I venti politici sopravvissuti, per dimostrare a se stessi e al mondo che c’era un motivo dietro alla loro resistenza intestinale altrimenti inspiegabile, si riunirono a casa del più autorevole di loro, e stabilirono con assoluta convinzione, in totale buona fede, che Dio aveva risparmiato proprio loro perché erano stati prescelti da Dio per rifondare il sistema politico nazionale corrotto. Sul sistema politico nazionale corrotto erano tutti d’accordo. Però quattro dei venti politici erano atei irriducibili, e non accettavano il riferimento alle motivazioni divine, suggerendo piuttosto una migliore capacità antibiotica. Comunque i venti decisero che non dovevano dividersi su questioni così futili, e si accordarono così: i sedici sostenitori della preselezione divina avrebbero fatto il governo, e i quattro della super-capacità antibiotica sarebbero stati all’opposizione, che comunque ci voleva. Poi uscirono fuori per portare il loro verbo al popolo. Rubarono un vecchio camioncino al rivenditore d’auto più disonesto della capitale, che era stato tra i primi a defecare l’ultima diarrea. Montarono sopra un altoparlante, tipo quello degli arrotini. Rimediarono un microfono, e iniziarono a fare i loro giri, come un circo scassato e raccogliticcio che improvvisasse una pubblicità strada per strada. A turno parlarono tutti, nuovo governo e nuova opposizione, e dissero quello che veniva loro in mente, che loro rimanevano legittimi rappresentanti del popolo sovrano, che Dio, o una super-capacità antibiotica, li aveva risparmiati, che al Paese servivano cure drastiche a cui loro avrebbero pensato, con l’aiuto del popolo. Ma nessuno li ascoltava, in quel delirio di merda e corpi e morti tutti pensavano a salvarsi, o a salvare i propri cari. I venti politici alzarono il tono della voce, divennero apocalittici, divennero rassicuranti, minacciarono e promisero, ma niente. Il popolo era impazzito, la gente urlava per le strade, la situazione andava fuori controllo sempre di più.
Il più autorevole dei venti ebbe una pensata fulminante. Una pensata che forse gli avrebbe assicurato un giorno la poltrona di Primo Ministro, se il loro fosse mai diventato un governo vero.
I cittadini erano terrorizzati, non ascoltavano, non sentivano, non ragionavano e non parlavano.
In mancanza totale di tutti gli altri sensi, c’era bisogno che vedessero, per credere.
Un terzo dei cittadini italiani lasciò il proprio corpo mortale in quel giorno. Una pestilenziale punizione divina da Vecchio Testamento, che in Europa non si vedeva più dal quattrodicesimo secolo. Neanche le bestie volevano toccare quei corpi. Né, tantomeno, i pochi spazzini comunali abili e arruolati. Rimasero quindi lì, all’aperto, senza che nessuno trovasse il coraggio di rimuoverli. Vivi e morti convivevano, o forse conmorivano, negli stessi spazi, nelle stesse case, per le stesse strade.
Maghi, indovini e santoni entrarono in crisi. Quando le catastrofi e le morti tanto annunciate arrivarono davvero, gli stregoni si ritirarono, silenziosi e senza idee. L’improvvisa peste verde colse di sorpresa praticamente tutti quelli che per mestiere predicevano disgrazie. Muti o balbettanti, vennero presero d’assalto da un incredibile afflusso di clienti, pronti a sborsare qualunque cifra pur di ricevere la salvezza. Ma i maghi non erano abituati a discutere di cose così precise e così evidenti. E ad essere smentiti così, sull’attimo. Un mago con un grande turbante rosso aveva accumulato milioni in poche ore smerciando acqua, zucchero, succo di limone e colorante blu in raffinate bottigliette anch’esse azzurre. Il misterioso liquido era andato a ruba. Quando però i primi cinquanta clienti morirono di peste verde, sotto gli occhi degli altri avventori, per di più con la lingua blu, oltre alla consueta faccia verdastra, il resto dei clienti in coda si sentì piuttosto truffato, e anche abbastanza arrabbiato. Il mago fu costretto a mangiarsi il turbante e a bersi tutto il colorante, ma non se ne fece una gran preoccupazione, perché prima del morso iniziale, un provvidenziale e fulminante attacco di peste verde lo colpì, sottraendolo alla furia dei miracolati delusi. Evidentemente, la folla aveva iniziato a mordere. Il Ministero della Sanità per gli Abbienti fu messo a fuoco e fiamme, letteralmente: migliaia di cittadini folli e ciechi lo assaltarono, accumularono scrivanie e scartoffie e mobili nell’ingresso, rovesciarono intere pompe di benzina e diedero fuoco. L’incendio fu spettacolare.
La folla rimase molto soddisfatta dall’effetto del fuoco che lambiva gli eleganti palazzi marmorei. Stabilì che aveva trovato la soluzione a tutti i mali, e si diresse verso altri luoghi del potere, che potevano più o meno avere a che fare con l’epidemia. Era uno spettacolo d’altri tempi: forconi e torce alla mano, i servi della gleba si apprestavano a bruciare il signorotto di campagna che aveva esagerato con le malefatte.
Il più autorevole dei venti politici vide il fuoco, vide la massa infuriata, vide i corpi ammassati e abbandonati. Era ancora insieme agli altri diciannove, ed è una cosa piuttosto scontata, poiché i politici nei momenti di crisi tendono sempre a riunirsi tra loro.
Già aveva avuto la pensata, e lo spettacolo gli disse chiaramente che aveva visto giusto, che nei cuori c’era paura in abbondanza, e la paura è la moneta che ha più valore nel mercato politico. Fatti pagare in paura, guadagnerai in potere. Era un traffico che si faceva da sempre e non era mai in perdita. Il più abile dei venti parlò agli altri. Disse loro che l’occasione era storica, che i pericoli erano molti, che soltanto i più coraggiosi e disinteressati potevano affrontare folle inferocite e domarle. Di più, conquistarle. Di più ancora, lusingarle, farle innamorare, esaltarle e portarle all’amore assoluto. Di più, farsi incoronare con pieni poteri. Spiegò il piano. Predisse che la nuova maggioranza e la nuova opposizione insieme potevano salvare l’Italia. Che bastavano, in realtà, venti teche di vetro, che si potevano procurare in qualsiasi negozio del settore, o, per fare una cosa più elegante, in qualsiasi gioielleria ben fornita. I diciannove, opposizione e maggioranza perfettamente concordi, iniziarono a perlustrare la città per soddisfare il nuovo improvvisato capo. Videro decine di fuochi. Centinaia di corpi. Atroce confusione, immani disastri e puzza di cadaveri. Finalmente videro anche venti teche di vetro, perfette per scopi e dimensioni, e anche di bell’aspetto, e ne fecero incetta. Rilasciarono al negoziante i buoni di un qualche Ministero, e il negoziante era così disperato per la morte dei figli e della moglie che arrivò persino ad accettare senza protestare.
Sandro
mercoledì 6 maggio 2009
Antipolitica/ottava parte

Il giornalista, rimasto solo, decise di concedersi un attimo di calma per pensare. Scese di nuovo in strada. Cercò di calmarsi, di ritrovare tranquillità e capacità critica, per prendere una decisione ragionata. Tutto quello che riuscì a partorire fu una serie di considerazioni, piuttosto ovvie ma piuttosto innegabili: lo stipendio se ne era andato, i capi se ne erano andati, se non c’era più nessuno che scriveva articoli non c’erano più articoli, e quindi niente giornale. E quindi lui era senza lavoro. E di conseguenza il suo capolavoro di cinque cartelle, il resoconto da prima pagina sull’eccidio in Parlamento, era da buttare. Oltretutto, ora che si era capito che la morte aveva preso anche tutto il giornalismo italiano, e anche l’industria, e chissà quanti altri settori, l’articolo era anche decisamente poco aggiornato. Lo buttò senza troppi rimpianti nel cestino. Riuscì a cogliere per un breve attimo la crudele ironia di non voler buttare dei fogli per terra per paura di inquinare, quando negli uffici sopra la sua testa c’erano tonnellate di rifiuti umani in decomposizione che nessuno forse avrebbe mai pulito. Alla fine, scuotendo la testa, decise di tornarsene a casa anche lui. Iniziò a camminare. Gli tornarono in mente tutte le volte in cui c’era stata una crisi ministeriale, o una proposta di legge innovativa, e lui aveva titolato "Malumore nel Paese", oppure "Crisi insostenibile", oppure "La società civile si ribella". Una volta addirittura aveva scritto che c’era "Rischio di rivoluzione", quando un ministro aveva proposto di alzare le tasse dello 0,5% per adeguarsi al programma di aiuti europei all’Africa. Tutta quella preoccupazione per come avrebbe reagito l’opinione pubblica. Per cosa avrebbero fatto le masse. Ora la rivoluzione era successa davvero, e le masse non facevano proprio niente. Qualcuno passeggiava. Qualcuno chiacchierava. Qualcuno sbadigliava. Qualcuno mangiava. Tutti sembravano straordinariamente calmi. Il giornalista, arrivato finalmente a casa, rinunciò a capirci qualcosa. Mise la chiave nel portone, entrò, e si sforzò di dimenticare tutto quel delirio, per quanto poteva.
Al Venerdì Marrone seguì un Sabato ancora più Marrone. La popolazione italiana aveva seguito i tragici avvenimenti, la strage che aveva decimato la punta dell’iceberg sociale, con un misto di preoccupazione e indifferenza, con lo stato d’animo con cui si assiste a un thriller poco riuscito. I giornali il sabato non erano usciti, le televisioni neppure, per ovvi motivi, e tutto era così quieto che sembrava irreale preoccuparsi. Senza fonti ufficiali, le città parlavano pigramente del numero dei morti, come in altri tempi avevano parlato di Tangentopoli e Calciopoli. Diecimila morti, diceva qualcuno. Centomila, ribattevano i più allarmisti, e quelli che volevano passare per ben informati. Un milione di morti, dicevano i più coraggiosi, e sfidavano le occhiate perplesse dei saggi e degli anziani. “Calcolate”, dicevano, “fate un semplice calcolo: il Primo Ministro ha dodici ministri, ogni ministro ha due sottosegretari, ogni sottosegretario ha quattro aiutanti, e loro quattro vice ciascuno. E poi pensate ai partiti, alle Camere, ai vice, ai ripescati, alle sezioni di provincia, ai militanti e ai simpatizzanti e agli assessori e alle giunte: tutti morti. E questo solo per la politica, senza contare i capitani di industria, i magnati della finanza, i giornalisti, che a quanto so, sono tutti morti pure loro. Sì, signori, un milione di morti. È la cifra più realistica. Almeno un milione di morti”.
Con il passare del tempo, si sa come funzionano queste cose, la gente si stanca di parlare sempre di uno stesso argomento, senza che ci siano notizie nuove. E se non succede niente di interessante, e non ci sono dettagli freschi, il lavoro di fantasia diventa necessario, inevitabile. L’argomento insignificante diventa notevole. Quello interessante diventa gigantesco. E se l’evento è già di per sé è gigantesco, come in questo caso, allora bastano poche ore perché le versioni si gonfino, perché il flusso delle notizie inventate distrugga tutte le dighe della ragione. Le cifre più assurde acquistavano di mezz’ora in mezz’ora credibilità e autorevolezza accademiche. Il milione di morti sembrò presto una di quelle notizie da tempo di guerra, quando per definizione va tutto bene, stiamo vincendo e non abbiamo avuto perdite. Si iniziò a sussurrare, poi a dire con certezza, poi a gridare, tre, quattro, cinque milioni di morti. Si diceva che la malattia avesse iniziato a colpire a casaccio, senza più la chirurgica precisione dei primi momenti, come se la Morte si fosse rimessa la benda, e adesso dimenasse il forcone da ubriaca, senza guardare. Il silenzio di radio, giornali e televisioni era stato riposante, e aveva calmato tutti, all’inizio. Tutti avevano pensato che fosse una bella pausa di relax nell’intricato svolgersi dei giorni. Ma con il passare del tempo quella stessa calma, quello stesso silenzio, divennero insopportabili, acuti, opprimenti, il silenzio dei morti, dei cimiteri, delle catastrofi che non hanno nome. La folla era sul punto di agire, di fare qualcosa, qualsiasi cosa che le permettesse di sfuggire all’immobilità. Tutti sanno che le folle e i cani hanno la stessa psicologia, e attaccano quando si sentono molto forti, o molto impauriti. La folla era stretta all’angolo, non aveva vie di fuga e sentiva qualcosa che la spingeva in vicoli ciechi. Presto la folla avrebbe iniziato a mordere, e non aveva importanza cosa avrebbe morso.
Il fatto è che la massa, come capita quasi sempre, aveva in realtà ragione, e aveva capito quello che stava succedendo. La malattia si propagava, tra tutti gli strati della popolazione.
Avvocati e imputati schiattavano insieme, progettando la dichiarazione completamente inventata che avrebbe fatto capitolare il giudice.
Quel giudice stesso moriva mentre parlava al telefono, seguendo un complicatissimo codice, e stabiliva l’importo esatto della mazzetta con un importante industriale del tortellino, che moriva anch’egli in quell’esatto istante.
Fruttivendoli, artigiani, muratori, banchieri, cadevano giù come mosche, in casa loro, per strada, mentre parlavano con gli amici. Ora dopo ora, la malattia si faceva più veloce, più fatale e più indiscriminata, uccideva con la rapidità e la facilità di un impiegato che avesse imparato a disbrigare le sue scartoffie senza guardare.
Automobilisti non portavano mai a termine il loro viaggio in Suv.
Oltrepassatori di aiuole schiattavano calpestando margherite.
Padroni di cani ignoravano la cacca dei loro beniamini, e morivano fulminati all’istante dalla propria.
L’Italia si svuotava, si prosciugava, moriva sommersa dal suo letame. La puzza aveva da tempo oltrepassato i confini nazionali, infischiandosene del mare, dei venti, delle montagne, causando incredibili danni. In Francia il vino si faceva aceto, il formaggio inacidiva, in Svizzera i prati verdi subivano piogge tossiche, in Germania la birra diveniva analcolica d’un colpo.
L’Italia moriva, era evidente.
Sandro
martedì 5 maggio 2009
Antipolitica/settima parte

Dopo un’altra decina di minuti, uscì da un remoto angolino della grande sala il giornalista sorteggiato, anche lui miracolosamente sopravvissuto. I colleghi degli altri giornali non ce l’avevano fatta. Lui si era buttato in un posto sicuro appena tutti avevano iniziato a urlare e a morire. A discapito dell’etica professionale, che gli avrebbe ingiunto di guardare e documentare tutto, si era preso la testa tra le gambe, aveva chiuso gli occhi, aveva pianto e gridato a sua volta, e insomma non sapeva dire proprio nulla di quello che era successo. Aveva riaperto gli occhi solo quando tutti i rumori erano cessati. Si guardò intorno. Vide gli splendidi tendaggi bisognosi di una robusta visita in lavanderia. Vide i meravigliosi quadri antichi orribilmente macchiati da materiale organico. Vide gli antichi scranni tutti insozzati. Vide centinaia di morti, cadaveri già in putrefazione. Vide la montagna di merda che aveva riempito il Parlamento. Sorrise. Pensò che ci sarebbe venuto fuori un grande articolo.
E invece l’articolo non uscì proprio per niente. E non perché il bravo giornalista non si fosse impegnato, e non avesse consegnato le sue brave cinque cartelle in perfetto accordo con la linea del suo giornale. Lui il lavoro l’aveva fatto. Il problema è che non aveva nessuno a cui consegnarlo. Mandò una mail al caporedattore. Inaspettatamente, non ricevette la consueta risposta di avvenuta ricezione. Mandò una seconda mail, e non ebbe miglior fortuna. Si decise allora di chiamare sul cellulare, nonostante il caporedattore gli avesse espressamente detto, al momento di consegnargli il foglio con il prezioso numero, che se l’avesse usato in una situazione un po’ meno grave di una catastrofica emergenza, gli avrebbe schiacciato le palle nelle rotative, distribuendole in minuscoli frammenti su un milione e centomila copie. Ma del resto, questa volta la Notizia c’era, e da prima pagina, anzi, era così grande da riempirci tutto il giornale: il Paese era nella merda fino al collo, anche se detto così non sembrava una grande novità.
Il telefono squillò a vuoto. Riprovò. Al decimo squillo sentì rispondere una donna, dal forte accento sudamericano, forse del Messico. Provò a chiedere notizie del capo. La donna urlava qualche invocazione alla madre de dios. Chiese gentilmente cosa fosse successo. La donna tirò in ballo la virgen Maria y la mala suerte. Il giornalista era piuttosto confuso. Scandì bene, lentamente, il nome e il cognome del suo capo, e, ripescando flebili nozioni di spagnolo dell’Università, azzardò un timido –donde està?
Il primo lampo di quanto fosse veramente grave la situazione lo ebbe, finalmente, solo quando si sentì rispondere- Mierda. Mierda. Mierda.
Lo colse un terribile sospetto. Corse in redazione. Non voleva credere a quel pensiero che gli torturava la testa. Non voleva credere a quello che il suo istinto gli diceva con sempre maggior insistenza. Anche se dentro di sé, in realtà, aveva ormai capito cosa doveva aspettarsi. A ogni passo che lo avvicinava all’elegante sede della redazione, nel pieno centro storico di Roma, seppe con sempre maggior certezza che una volta dentro avrebbe trovato esattamente quanto si stava immaginando. E in effetti era proprio così.
Il caporedattore era morto. I suoi capi erano morti. Il vecchio direttore, che a centotre anni suonati si ostinava a scrivere e andare in televisione, anche se biascicava e sputava ed era completamente rincoglionito, era finalmente morto. Ma non della meritata morte per vecchiaia. Non di un colpo apoplettico, né di infarto. La fine non lo aveva colto come aveva sempre desiderato, ovvero con la penna in mano e il foglio sotto il pugno, mentre elaborava raffinate critiche alla situazione sociale e culturale del paese. La morte lo aveva preso al suo cesso privato, e gli aveva tinto la faccia di verde. Tutti erano verdi, tutti erano morti.
La puzza era così forte che i muri sembravano doversi piegare verso l’interno e crollare, o che i soffitti dovessero cedere per fare entrare un ricambio d’aria: sembrava impossibile che tanto insalubre fetore potesse essere contenuto dai trecento metri quadri della sede centrale. E sembrava ancora più improbabile che qualcuno fosse ancora vivo e potesse immettere nei suoi polmoni quell’aria. Ma qualcuno c’era. Erano gli stagisti, i ragazzi usciti dall’Università: il vecchio direttore li sceglieva personalmente dalle migliori facoltà, li accoglieva con un edificante discorso su diritti del lavoro, opportunità, speranze e doveri, li faceva lavorare per tre mesi, e poi, con ammirevole imparzialità, li rimandava a casa tutti quanti, e prendeva altri tre stagisti gratis. Questi tre in particolare, se non potevano vantare il tanto agognato contratto, almeno avevano soddisfatto il bruciante desiderio condiviso da tutti i loro predecessori: veder schiattare il vecchio tra atroci sofferenze. Il giornalista si fece raccontare dai tre ragazzi quello che era successo. Stesse identiche scene del Parlamento. I tre erano sconvolti. Forse temevano di essere portatori sani di un qualche contagio, e di dover subire le conseguenze della strage. Ma a sentire che era morto praticamente tutto il Parlamento, si sentirono molto sollevati. Furono quasi contenti. Rimanevano senza lavoro, ma erano anche senza capi, e senza molta concorrenza, sia nella politica che nel giornalismo. Salutarono il giornalista e se ne tornarono a casa loro.
Sandro
lunedì 4 maggio 2009
Antipolitica/sesta parte

“Colleghi”, disse, e gli mancò il fiato. Accorsero inservienti, uscieri, parlamentari. Stava evidentemente male.
“Colleghi”, ripeté, ma il fiato non gli usciva, era a pezzi, evidentemente incapace di muoversi, di agire, di parlare. Non avrebbe mai interrotto un importante discorso sul Nulla Assoluto se non vi fosse stato costretto.
“Colleghi”, disse ancora, e ancora la voce gli venne meno, il respirò si bloccò.
Fategli aria, disse qualcuno, lasciatelo respirare, insomma, allontanatevi.
Le sagge parole sortirono il loro effetto: la calca si allontanò, il Primo Ministro ebbe tempo di inalare profondamente, cercare di riprendersi e dire qualcosa, anzi, rilasciare una qualche dichiarazione, cosa che del resto era alla base di tutto il suo lavoro.
“Colleghi”, disse infine, circondato da unanime curiosità e apprensione.
“Colleghi, portatemi al cesso, vi supplico”
La penna cadde dalla mano del giornalista sorteggiato. Era una bella sorpresa. Il Primo Ministro era andato fuori tema per la prima volta in vita sua, e aveva detto qualcosa. Il mondo della politica sarebbe rimasto sconvolto. Ce n’era a sufficienza da far cadere due governi. Un brusio, presto un urlo, si scatenò tra i banchi.
I parlamentari dell’Opposizione Compiacente stavano già per urlare le fatidiche parole - dimissioni, dimissioni, dimissioni- quando il problema di chi far sedere sulla poltrona più prestigiosa del Paese divenne all’improvviso del tutto secondario. Una puzza tremenda impestò la prestigiosa aula. Divenne chiaro almeno dove si sarebbe dovuto sedere il Primo Ministro, e cioè sulla tazza del cesso, e anche che l’avrebbe dovuto fare prima, molto prima. Il Primo Ministro, nonostante l’arrivo istantaneo di una enorme quantità di dottori, morì in meno di quaranta minuti.
La poltrona prestigiosa del Primo Ministro, la poltrona per cui politici e uomini di potere avevano tramato e intrigato e battagliato, perse molto del suo appeal quando fu evidente che era stata sporcata nel più oltraggioso dei modi. Ma quel fatidico giorno, con il premier che cadeva per terra, la puzza che si spandeva nell’Aula e le urla dei deputati, a nessuno venne in mente di preoccuparsi di particolari così futili come il decoro e la pulizia. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a pieni polmoni uno dei suoi slogan politici - devi morire, devi morire. Era uno dei suoi cavalli di battaglia preferiti, perché a suo parere rivelava le sue origini da uomo comune: un uomo che veniva dalla strada, e con ancora maggior precisione, dalla curva dello stadio. Il capo dell’Opposizione Compiacente urlava a squarciagola quando si accasciò a terra. Verde. La sua morte fu ancora più rapida di quella del Primo Ministro, e la sua puzza ancora più disastrosa. Il suo fedele braccio destro era con lui dai tempi degli insulti xenofobi contro i tifosi napoletani durante i Lazio-Napoli. Quando lo vide accasciarsi, si ricordò, tremando e piangendo, di tutti i bei momenti vissuti insieme. Quella volta che per lui aveva compiuto l’enorme sacrificio di rinunciare alla paternità dello striscione, Per una Napoli pulita, vota Vesuvio: aveva ammesso pubblicamente che l’idea era stata del suo capo, che era tutto merito suo, e gli aveva conquistato gloria imperitura, e il voto fedele e sicuro di mezzo milione di laziali. Non deve sorprendere quindi il fatto che fu lui il primo a chinarsi per sincerarsi della salute del leader dell’Opposizione Compiacente. Riuscì a vincere il ribrezzo. Riuscì a vincere la paura, la confusione terribile dell’aula, il colorito malsano e infetto dell’uomo steso ai suoi piedi, tutto in nome dell’amore e dell’affetto verso il suo mentore. Riuscì a vincere tutto, e si chinò. Non si rialzò mai più. Non riuscì infatti a vincere la terribile malattia, che lo fece diventare istantaneamente verde, gli prosciugò intestini e fluidi, e lo lasciò a morire, donandogli però il privilegio di condividere la stessa sorte del suo capo. Dallo stadio, al Parlamento, alla tomba. Sempre insieme. La faccia del fedele braccio destro, nonostante la puzza e i dolori terribili, si dipinse in un sorriso.
Incredibile confusione. Il Consiglio dei Ministri, all’unisono, defecò tutto il meraviglioso pasto consumato a mezzogiorno nel lussuoso ristorante privato: si deve dire, a onore dello chef fatto venire appositamente dalla dolce Francia, che, quando era stato servito in tavola, l’agnello era sicuramente più appetitoso della fetida poltiglia verdastra in cui era stato trasformato, e che adesso infestava i banchi parlamentari. L’Opposizione Compiacente poté gridare ben poco, anzi, per l’esattezza fu costretta a smettere subito le urla di protesta contro il premier: in realtà tutti continuarono a strepitare, ma erano ormai grida di sofferenza, dolore e paura. Altri novantotto parlamentari caddero per terra, seguendo la sorte del leader e del braccio destro. Stessa cosa, con mirabile par condicio, capitò agli esponenti del Partito della Conservazione Reazionaria, attualmente al Governo, e a quelli del Centro Sempre e Comunque al Potere. Duecento uomini, cento dei primi e cento dei secondi, precipitarono giù dai loro scranni, soffocati dalle loro stesse deiezioni. Il Paese perdeva centinaia delle migliori menti, il fiore dei figli sbocciati dal suo florido seno. La società rimaneva senza guida. L’aula per una volta smise di essere sorda e grigia, e divenne un caotico regno di urla e lamenti su uno sfondo marroncino e maleodorante. Ettolitri di liquami poco nobili vennero versati da nobili e onorati corpi. Manipoli di inservienti bivaccavano correndo come disperati da un leader all’altro, cercando invano di salvare i salvabili. La puzza che usciva dal Parlamento invase il centro di Roma, via dei Condotti, piazza di Spagna, mise in fuga i turisti nipponici e corrose le antiche mura del Colosseo che ne ricevettero un danno permanente. Quel giorno venne ricordato, con un’ironia del tutto fuori luogo, come il Venerdì marrone. Trecentotrentuno parlamentari erano morti in meno di due ore. Un’intera classe dirigente spazzata via nello spazio di un intervento parlamentare.
Dai banchi orribilmente sporchi, da sotto le poltrone stracolme di cadaveri, quando il silenzio tornò a regnare, emersero, timidi, solo venti sopravvissuti. Erano parlamentari alla prima legislatura, i più sfigati, di destra e di sinistra, non si erano aggiudicati neanche un posticino misero da aiuto sottosegretario. Si rialzarono da sotto le sedie, dove si erano nascosti durante il delirio e la confusione, e dapprima non si capacitarono di essere scampati alla terribile sorte che aveva colpito tutti i loro superiori. Pensarono in un primo tempo, seguendo la logica e la disciplina di partito, che anche loro erano morti, anzi, erano morti per primi, in rigoroso ordine meritocratico. Si è mai vista una guerra in cui muoiono re e generali e ambasciatori e sopravvivono umili fanti? Ma la realtà era innegabile. I venti si tastarono, controllarono bene, ricontrollarono nuovamente. Tutti i loro capi erano morti. Loro erano vivi. Si sorrisero, mettendo da parte per una volta le differenze politiche che li dividevano. Guardarono i loro capi senza vita e senza budella, e sorrisero di nuovo. Poi scapparono fuori, in cerca di aria pulita. Si misero a correre, pensando con un fugace barlume di preoccupazione che, l’indomani mattina, gli sguatteri statali avrebbero avuto un bel daffare, a pulire tutto quel casino.
Sandro
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