mercoledì 29 aprile 2009

Antipolitica/quinta parte


Medici in camice bianco. Cliniche di fama internazionale. Luminari, assistenti, dottori, laureandi. E poi giù fino a santoni, guaritori, streghe e fattucchiere, telepredicatori, preti e vescovi. Tutti a indovinare la causa del nuovo morbo, che aveva fatto fuori un importante politico e un ricco industriale. Ognuno con la propria ricetta, ognuno con la propria diagnosi, ognuno convinto della propria assoluta ragione. Il Parlamento convocò tutti in massa, elargì a ognuno un generoso compenso per la consulenza, sentì tutti, e poi li rimandò a casa, senza avere neanche la minima idea di quelle che realmente era successo. Si sapeva solo che uno del Parlamento era morto, e questo era un problema gravissimo, e che un sacco di altri soldi se ne erano andati per tutte quelle consulenze, e questo era meno grave, perché non si era mai capito chi pagava realmente i conti del Parlamento, ma di certo a nessuno gliene fregava un accidente.
Il Presidente del Consiglio si presentò in aula, per rispondere a un’interrogazione dell’Opposizione Compiacente. Tema, neanche a dirlo, la morte delle due importanti personalità. Il Presidente si era preparato un discorso fenomenale, che aveva intenzione di collocare quale punta di diamante nel libro delle sue memorie, di prossima uscita. Del resto, il Presidente era un oratore eccezionale, di pregevolissima abilità, abituato a riscuotere entusiasmi e ovazioni. La sapienza oratoria era una caratteristica fondamentale per avere successo in Parlamento, e l’ultima ambiziosa legge elettorale aveva finalmente riconosciuto l’intrinseca importanza del saper parlare. Dopo lunghe discussione su quale modello adottare, i parlamentari si erano accordati su un criterio semplice, infallibile, imparziale e inattaccabile. Uguale per tutti. Gli schieramenti politici, dopo centinaia di anni di aspre e dannose divisioni, finalmente non avevano più senso, né necessità. Una grande evoluzione per la politica italiana. Semplicemente, in Parlamento si entrava sulla base di una prova scritta. E non c’erano nepotismo o raccomandazioni o spintarelle che tenessero. Solo il punteggio nudo e crudo faceva classifica, e solo i primi cinquecento entravano in Parlamento. E il primo in assoluto diveniva Primo Ministro, e i primi quindici si giocavano Ministeri e Sottosegretari all’annuale Lotteria. Un sistema democratico e pulito, da far invidia a qualsiasi Ateniese. Si doveva semplicemente sostenere la prova scritta, uguale anno dopo anno. Il tema infatti era fisso: Il Nulla Assoluto. Chi riempiva più pagine sul Nulla Assoluto, prendeva più punti. Ogni pagina, dieci punti. Ogni parola più lunga di quindici lettere, altri dieci punti. Ogni termine sconosciuto a un liceale, cinque punti. Ogni costruzione complessa, ogni frase laboriosa, ogni passaggio poco chiaro, cinque punti. Badate bene, la prova era semplice solo in apparenza, poiché era arduo rimanere rigorosamente in tema per molte pagine consecutive. Dopo un po’, anche i più brillanti candidati rimanevano a corto di vocaboli, e invece di parlare del Nulla Assoluto iniziavano a metterci in mezzo altri argomenti, scrivevano qualcosa, e venivano di conseguenza squalificati. E invece il Presidente era il maestro indiscusso in materia. Un artista della parola. Un virtuoso dell’intreccio. La sua prova, che lo aveva consacrato Primo Ministro, era un vero e proprio trionfo di arte retorica. Il suo tema, per giudizio unanime, era il più gonfio, il più pomposo trattato sul Nulla Assoluto mai scritto prima. Quarantasei cartelle fitte fitte, senza mai tirare in mezzo un solo argomento, di più, neanche l’ombra di un qualsiasi spunto. Quarantasei cartelle, e nessuno che lo aveva letto ci aveva capito una sola parola, ma a tutti era sembrato bellissimo. Era un Presidente molto amato.

Da quanto durava il discorso? Un’ora, un’ora e mezza, forse due. Cartelle dattiloscritte si ammonticchiavano sulla destra del Presidente. Un altrettanto imponente cumulo di cartelle dattiloscritte aspettava sulla sinistra. Il Presidente si schiarì la voce, prese un sorso d’acqua. Sorrise. Sapeva che quel discorso avrebbe ammaliato i colleghi della Maggioranza Paludata e perfino quelli dell’Opposizione Compiacente. Il popolo se ne sarebbe innamorato, e avrebbe rinnovato, come sempre, il suo plebiscito d’ammirazione e di affetto. I giornalisti, anzi, il giornalista sorteggiato avrebbe riempito intere pagine di appunti, e tutti i giornali avrebbero lodato una volta di più il suo acume politico, la sua visione chiara dei problemi, la sua grande dialettica, la sua profonda conoscenza del Nulla Assoluto. Posò il bicchiere con gesto teatrale. Con un unico profondo sguardo ammaliò la platea. Aspettò che gli occhi di tutti si puntassero nuovamente su di lui. Fece il suo movimento con le mani preferito, quello che a prima vista sembrava un semplice gesto di nervosismo, come se stesse cercando di liberarsi dalla tensione agitando le dita. In realtà, quel gesto serviva proprio a dare una patina di umanità a una figura che altrimenti sarebbe stata troppo potente, lo rendeva ancora più grande proprio per quella sua debolezza, lo faceva ancora più superiore proprio con la messa in mostra di possibili, remote debolezze. Essere umano lo rendeva ancora più chiaramente Dio, come Cristo a suo tempo aveva insegnato. E del resto, Cristo era uno dei suoi argomenti preferiti, dopo il Nulla Assoluto, naturalmente. Compì con la lentezza dovuta il rituale gesto delle mani. Distese il viso nella tradizionale espressione preoccupata ma efficiente. Solo quell’espressione, si era calcolato, aveva fruttato tra un milione e un milione e mezzo di voti.
La sua espressione cambiò in un istante. Come il suo colorito. Come i gesti delle sue mani. Iniziò a tremare e muoversi come un epilettico. Un epilettico verde, per giunta.
Sandro

martedì 28 aprile 2009

Antipolitica/quarta parte


Mentre di buon mattino leggeva il giornale, il signor De Benedettis, titolare di un’importante catena di ristoranti fast food, faceva colazione, e scorgeva rapidamente le pagine. Era rimasto molto colpito dalla morte del Ministro, un buon amico, e un buon politico. Il Paese aveva perduto un valido funzionario, lui aveva perso un caro amico, sua moglie un caldo amante, e i suoi affari erano rimasti sprovvisti di un affidabile referente con la ‘ndrangheta, partner commerciale molto importante per gli affari del De Benedettis. In poche parole, una vera tragedia. Ma la vita andava avanti, come sempre doveva fare, e come sempre avrebbe fatto. La moglie avrebbe trovato altri amanti, e lui altri amici. Uscì, salutò la dolce metà, salì sull’elegante auto con i vetri oscurati. Salutò l’autista. Scambiò con lui quattro parole, le stesse di ogni mattina. Entro venti minuti sarebbe stato al lavoro. Aveva finalmente trovato un metodo infallibile per abbattere radicalmente i costi, e per fregare la spietata concorrenza cinese e indiana. Era inutile puntare tutto sul buon prezzo della carne. Aveva provato con i gatti, i cani, i topi e persino gli scoiattoli dei parchi, ma senza successo: gli hamburger della concorrenza costavano sempre meno ed erano pure più saporiti. Aveva sfogliato per settimane la sua enciclopedia degli animali per trovare una soluzione, ma era stato tutto inutile. Il giorno prima, però, aveva finalmente avuto una buona idea. Geniale, nella sua semplicità. Le discariche erano la soluzione. Bastava farsene dare in gestione una decina. Scandagliare tutti i rifiuti. Rintracciare tutti gli elementi organici. Bollirli in un enorme pentolone, condirli con disinfettante, Napisan Plus e qualche zucchina e qualche buona carota, e con tanta cipolla, ed ecco fatto. La zuppa De Benedettis avrebbe riempito il mercato. Un prezzo imbattibile, e un gusto sicuramente unico. Per di più, un’opera meritoria, che risolveva in maniera radicale il problema dei rifiuti. E tutto questo senza dover licenziare un solo dipendente. Bastava riadattare gli operai delle fabbriche di fast food in operatori ecologici, e tutti contenti. De Benedettis era soddisfattissimo della sua idea. Avrebbe avuto il plauso del sindaco, e il favore del mercato. Mentre sul suo viso si dipingeva un sorriso sempre più largo, De Benedettis sentì una fitta allo stomaco. Un dolore acuto, incontrollabile. Brividi presero a percorrerlo. Tremava. L’autista si rese conto che qualcosa non andava solo quando sentì un catastrofico rumore provenire dal retro, e abbassò il finestrino oscurato che lo divideva dal facoltoso principale. Ma subito lo tirò su di nuovo, e in fretta, poiché una puzza pestilenziale aveva contagiato tutta la macchina. Accostò, reprimendo a fatica i conati di vomito. Scese, si avvicinò allo sportello del passeggero, raccolse un profondo respiro e tutto il suo coraggio, e aprì la portiera. Un corpo rotolò ai suoi piedi. Un corpo esile, sottile, asciutto e tirato come un elastico. Sembrava impossibile che avesse mai potuto contenere del sangue e degli organi. Il corpo era completamente, scusate la volgarità, ricoperto di merda. Era diventato praticamente anch’esso parte della poltiglia marrone e disgustosa che aveva riempito lo schienale posteriore. Solo la faccia aveva un altro colore, e non era stata colpita da qualche goccia fuori controllo dell’orribile liquame. Il signor De Benedettis aveva la faccia completamente verde. E, inutile a dirsi, era morto.
Sandro

lunedì 27 aprile 2009

Antipolitica/terza parte


Grande scalpore riscosse la notizia in tutta Italia. I giornali erano in fibrillazione, nei bar e nei luoghi di lavoro non si parlava d’altro, tutte le città erano un unico indistinto mormorio, urlo, ragionamento e discussione, tutto su un singolo e solo argomento. Un Ministro della Repubblica, e uno dei più importanti per giunta, morto di colpo, di diarrea. Prosciugato dall’interno, dal proprio stesso intestino. Sotto gli occhi, e purtroppo anche sotto l’olfatto, di dieci tra i più autorevoli giornalisti dell’editoria nazionale. Gli appunti presi dallo sfortunato sorteggiato, debitamente controllati e adattati alle esigenze delle varie linee dei quotidiani, fecero il giro della penisola, dell’Europa e del mondo.
La Voce del Fazioso ipotizzò che si trattasse di una squallida iniziativa terroristica: per modalità ed efferatezza, si scorgeva chiara la mano del fondamentalismo islamico, con qualche evidente infiltrazione brigatista. “Le brigate rosse non sono mai morte nel nostro Paese” ebbe a dire il sempre vigile Ministro per il Conformismo pubblico, “esse sono come un cancro sempre rinnovantesi nel tessuto più sano della società. Il pericolo è in agguato”. Ripeteva la stessa dichiarazione ogni primo venerdì del mese, da sei anni, e non avrebbe di conseguenza ottenuto tanto rilievo, se questa volta non fosse stata letta in relazione al luttuoso avvenimento, con grande gioia dei fedelissimi del Ministro, che per giorni interi andarono sbandierando l’acume politico del loro capo, dichiarazioni alla mano.
Il Corriere della pronta e prona informazione uscì con uno speciale di dieci pagine, a colori, sulla vita e le opere del defunto Ministro, ipotizzando che la causa di tutto fosse una bottiglietta di acqua santa, religiosamente scolata dallo sventurato, e diabolicamente contraffatta dal destino o da qualche malintenzionato. In un toccante editoriale, il direttore del Corriere paragonò il morto a un santo dei nostri giorni, ne propose la beatificazione, e non esitò a dire che un tale esempio di rettitudine meritava la speciale onorificenza di Martire dello Stato.
La Gazzetta Falsa e tendenziosa disse che finché non si rimuovevano le cause del malessere sociale, nulla poteva cambiare realmente: frase che sembrò a tutti molto giusta e profonda, e che la vedova estone usò prontamente il giorno del funerale. Sarebbe probabilmente entrata nell’opinione comune, se dopo la funzione religiosa un giornalista curioso, evidentemente inesperto del suo delicato mestiere, non avesse chiesto alla vedova cosa intendesse dire con quella frase così toccante, e la vedova estone non avesse risposta con il più sincero dei boh, prima di allontanarsi con somma discrezione in compagnia di uno dei becchini.
Il Rivoluzionario mansueto e velleitario, infine, disse subito che il Ministro aveva avuto esattamente quanto si meritava, e che la sua fine era simbolica della fine che aspettava tutto il sistema politico: ucciso dalla propria stessa merda. Disse che era molto giusto che il morto fosse trapassato tra atroci dolori e nauseanti puzze. Disse, in un lungo servizio di divulgazione storica, che lo stomaco del Che Guevara, al contrario di quello del porco finalmente scannato, era regolare come un orologio. Il Che andava di corpo una volta al giorno, immancabilmente, ogni tanto anche due, e mai nelle sue deiezioni si era ravvisata la mollezza tipica dei politicanti di oggi. La sua austera regolarità, mens sana in sano ano, non era stata incrinata neanche dal duro regime della vita di guerriglia, nemmeno dalle impervie marce sulla Sierra Maestra, dove il Che si era nutrito per nove settimane di sole banane, limoni e acqua di palude, senza riscontrare nemmeno un episodio di stitichezza.
Sandro

sabato 25 aprile 2009

Antipolitica/seconda parte


Stava per l’appunto pronunciando queste parole, davanti ai giornalisti sinceramente ammirati, quando il Ministro divenne improvvisamente verde. La moglie ventiquattrenne urlò. Il ministro faceva fatica a respirare. I dieci cronisti si guardarono, senza sapere che fare. Era uno scoop eccezionale. Mai nessun Ministro era divenuto verde prima.
“Sapete…”
La voce del Ministro era diventata un flebile lamento. Accadeva tutto molto in fretta. Era diventato perfettamente verde, il colore dei piselli in scatola. Mandava anche un cattivo odore. Sembrava un kiwi in avanzato stato di decomposizione. I giornalisti gli si strinsero attorno. Nove su dieci volevano essere utili, salvarlo in qualche modo. Il decimo scriveva furiosamente, poiché dalla sua penna dipendeva l’articolo di tutta l’industria dell’informazione italiana, e quindi della storia.
Sul suo taccuino aveva scritto |–saluti camorra- difficoltà respiratorie- colore verde- puzza in modo terrificante- farfuglia qualcosa, ma non si capisce-| quando il Ministro tirò un lungo sospiro. Divenne ancora più verde. Tutti erano molto attenti a quello che avrebbe detto.
“Sareste così gentili…”.
Non riuscì a finire la frase. La situazione si faceva quasi ridicola. Il Ministro aveva gli occhi fuori dalle orbite. La cravatta era sul punto di esplodere. Più in generale, tutto il suo corpo sembrava un enorme brufolo pressato da due gigantesche, per quanto invisibili, dita adolescenziali. Raccolse le ultime forze. Prese gli ultimi soffi di fiato. Spalancò i suoi polmoni, e gridò:
“C’è un cesso su questo cazzo di aereo?”
Lo portarono di corsa verso il bagno extra lusso dell’Air Force Italia. Fecero appena in tempo a levargli pantaloni e mutande, e a buttarlo sulla tazza. Il bagno era un vero capolavoro di minimalismo e funzionalismo, era costato un patrimonio alle già provate casse dello Stato, e i contribuenti dovevano fare grande fatica per poterselo permettere. Fu sicuramente un grave peccato sporcare quel bagno così lindo con tutto quello che uscì dal corpo del Ministro.
|-Non riesce a parlare- volgarità indegne di un uomo di Stato- corsa al bagno- quasi completamente nudo- terribile attacco di diarrea- aria irrespirabile- rumori ben poco degni di un’importante carica istituzionale-| è quanto scrisse il solerte giornalista sul suo taccuino. Di rumori imbarazzanti ne giunsero molti, da dietro la porta dell’elegante bagno. L’impianto di aerazione faceva del suo meglio, ma non riusciva a controbattere a quell’odore totale, nauseabondo, che impregnava i nasi e i vestiti e i cervelli. Il Ministro non uscì mai più da quel bagno.
Dopo un po’ i rumori cessarono. Scese un pesante silenzio. Qualche giornalista andò a bussare. La moglie provò a chiamarlo, ma finì per sbaglio per fare sesso con un avvenente steward, troppo sconvolta, evidentemente, per controllare i suoi istinti. Del Ministro non si sentì più nessuna voce. All’atterraggio a Roma, un’ora dopo, la porta del bagno era ancora ben chiusa. Alla fine arrivarono i Tutori dello Status Quo, con volanti e divise lucide e manganelli, e fecero irruzione. Buttarono giù la porta a spallate. Il Ministro era ancora seduto sulla tazza. Aveva un’espressione di totale dolore, e di schifo, e a ragione, considerata l’aria che c’era ancora lì dentro. Il Ministro era immobile, smagrito, la pelle gli cadeva come uno straccio sporco sulle ossa. Completamente prosciugato. Come se le due enormi, per quanto invisibili, dita adolescenziali lo avessero spremuto una volta per tutte. Il Ministro dei Rapporti con la criminalità organizzata era morto.
Sandro

venerdì 24 aprile 2009

Antipolitica/prima parte





Le cose andavano più che bene per il Ministro dei Rapporti con la Criminalità Organizzata. La sua carriera procedeva a gonfie vele, e anche l’ultimo incontro si era risolto in un vero e proprio trionfo. Sul lussuoso Air Force Italia, rilassato nella comoda poltrona di pelle, sorseggiava il Martini e soda, sapientemente preparato dal suo barman personale. Il Ministro era l’immagine stessa della soddisfazione. Raccontava con somma gioia gli eventi del pomeriggio. Una vittoria storica per lo Stato Italiano, oltre che per lui stesso, naturalmente. Lo Stato avrebbe immensamente arricchito le sue esangui casse. Lui, grazie a questo successo, avrebbe potuto comprare altri dieci voti all’annuale Compravendita del Sostegno Politico, e farsi eleggere a qualche carica più importante. Presidente della Camera. Presidente del Consiglio. Presidente della Repubblica. L’ambizione del Ministro era smisurata, e del resto era stata l’ambizione a permettergli una così clamorosa, e rapida, carriera. L’incontro a Napoli, del resto, aveva tutte le carte in regola per passare alla storia. C’erano tutti i più grandi capi, tutti i capofamiglia dei più importanti clan partenopei, dai Badalamenti ai Collina ai Lo bello, non mancava nessuno. Era la prima volta che la Camorra rispondeva con questa sollecitudine a una richiesta di un confronto da parte dello Stato, e già il fatto che così importanti personalità avessero aderito senza indugi era un evidente segnale del rispetto che il Ministro stesso emanava con la sua magnetica personalità. Era stato un trionfo per lui. Una soddisfazione etica, politica e anche personale. Lo Stato si era aggiudicato tutto il racket della Sanità, fino all’ultimo euro. La Camorra rinunciava a ogni diritto, su ospedali, case di cura, posti letto e medici della mutua: finiva tutto dritto dritto nelle casse del Tesoro. Era un successo clamoroso, perché la Sanità era da sempre uno dei settori amministrati con più successo dalla Malavita organizzata. Certo, lo Stato aveva dovuto pagare il suo prezzo, e già il Ministro prevedeva quello che i più ostinasti critici dell’ Opposizione Compiacente avrebbero detto. La Camorra si riservava in cambio lo spaccio di tabacco, eroina, cocaina e ketamina, commerci molto fiorenti nel napoletano. Ma il Ministro, come stava appunto dicendo ai suoi fedeli giornalisti, era più che certo dell’accordo che aveva siglato, e l’avrebbe difeso in tutte le sedi opportune: era pronto a rispondere persino alle interrogazioni del Parlamento Pletorico schierato al completo. Era vero che lo Stato non incassava più un soldo dal commercio della droga, ammise, “ma cosa succede ai drogati, dopo che si sono drogati?”, chiese, gonfio di retorica.
Accanto aveva la bella moglie, una modella estone di venticinque anni, e uno stuolo di giornalisti, simbolo immancabile del vero potere. I giornalisti sembravano molto concentrati sulle parole del Ministro. In realtà non lo erano affatto, poiché il loro albo aveva già da tempo deciso, seguendo la più logica delle leggi, che era inutile che tutti prendessero appunti, facessero le stesse domande, registrassero gli stessi discorsi. Tanto alla fine in qualche modo finiva tutto su Internet, e i giornalisti facevano lo stesso pezzo copiandolo da lì. Perciò, in definitiva, l’albo aveva elaborato un nuovo, severissimo codice deontologico, da cui non si doveva mai prescindere: tutte le testate dovevano sempre viaggiare insieme, poi i giornalisti tiravano democraticamente a sorte, e chi usciva faceva l’intervista, o l’articolo di turno. Poi quello che aveva scritto passava il pezzo agli altri che nel frattempo si riposavano e chiacchieravano, e così tutti avevano il loro giornale fatto, con notevole risparmio di energia. Però la faccia concentrata, almeno all’inizio, la dovevano fare tutti. Faceva parte dell’aurea di rispettabilità di qualsiasi Ministro. E il Ministro dei Rapporti con la Criminalità Organizzata era famoso, oltre che per la splendida moglie, anche per il pessimo carattere, e teneva la sua rispettabilità nella massima considerazione.
“Dove vanno a finire i ragazzi che in questo stesso momento si stanno iniettando tutta quella droga? Certo, avranno pagato centinaia di euro, per diventare tossicodipendenti, e la Camorra ci avrà fatto su un bell’utile. Ma dove, amici della stampa, dove finiranno in ultima analisi tutti gli eroinomani, tutti i manager rampanti con le narici piene della preziosissima polverina? Dove finiranno quando il loro cuore non reggerà più, e inizierà a pulsare in testa così forte che potranno sentire nelle orecchie il rumore del sangue? Dove andranno a quel punto, tutti quei ricchi drogati?”
Il Ministro fece una pausa a effetto. Conosceva bene i suoi giornalisti. Le pause a effetto erano proprio quello che ci voleva. Vecchi trucchi, ma che funzionavano sempre.
“Finiranno in un letto di ospedale. Si faranno internare in qualche clinica privata. I più pezzenti si faranno visitare a domicilio da qualche laureando in medicina. Comunque sia, una parcella la dovranno pagare, e quei soldi finiranno dritti nelle nostre tasche. Vedete, distinti esponenti della libertà di stampa, dopo oggi lo Stato avrà l’invidiabile posizione di ultimo beneficiario di tutto il ciclo della droga, e sarà l’unico che ci guadagna sempre e comunque, e anche con la migliore posizione etica, il che non guasta mai. Senza dover spacciare una sola bustina, allo Stato andranno tutti i proventi delle costose cure. Pensate a quanti drogati ci sono oggi in Italia. Pensate a quali occasioni di guadagno. Fidatevi, cari giornalisti, oggi ho stipulato un accordo storico. Come ho detto ai cari amici della Camorra, da oggi siamo soci ancora migliori, perché ogni buco in vena fa un malato, ogni malato fa un conto di un dottore, ogni malato guarito fa un nuovo drogato. L’economia gira, e mai come oggi gli screzi tra le nostre organizzazioni sembrano futili e lontani. Lunga vita alla Camorra campana! Lunga vita allo Stato Italiano!”
Sandro

martedì 7 aprile 2009

Malinteso in un piccolo comune del Sud


«Buongiorno assessore».
«Buongiorno un corno».
«Che succede, assessore? Qualcosa che non va?»
«Può dirlo forte, assistente. Può dirlo forte. Le elezioni comunali sono alle porte, i sondaggi preannunciano un bagno di sangue, il sindaco mi vuole morto e se non vengo rieletto le rate della macchina mi strozzano peggio di un cravattaio. E niente rate niente macchina, e niente macchina niente moglie, con tutte le spiacevoli conseguenze che questo può comportare».
«Una brutta situazione».
«Una situazione di merda, e mi scusi il linguaggio, assistente. Qua bisogna trovare una soluzione».
«Per cosa? Per il sindaco, per la macchina o per la moglie?»
«Ma quale macchina? Ma cosa dice? Una soluzione per rivincere le elezioni, è ovvio. La gente è furiosa, tra un po’ darà fuoco al Comune. Sono tutti incazzati neri, e hanno ragione. E lei lo sa perché?»
«Perché, signor assessore?»
«Già, che ne sa lei? Lei non sa mai nulla. Sono incazzati perché si sentono insicuri, e invece vogliono sentirsi sicuri. La gente vuole esser sicura. Ripeta con me. La gente vuole essere sicura. Si-cu-ra. Come vuole essere la gente?»
«Si-cu-ra».
«Esattamente».
«E come facciamo a farla sentire sicura?»
«Ecco la domanda. Bisogna eliminare tutti gli elementi di insicurezza. Eliminarli una volta per tutte. Eliminate le insicurezze, il sindaco viene rieletto, io vengo rieletto, lei viene confermato, e le mie rate si pagano da sole. Chiaro, no?»
«Chiarissimo. Ma quali sono queste insicurezze?»
«È qui chi si vede chi è il politico e chi è l’assistente. Ecco la domanda, ripeto. Ma ecco anche la risposta. Basta leggere i giornali. Tutti i giorni, in tutti i comuni del Sud. Emergenza continua. Un pericolo che scorazza per le nostre città, incontrollabile. Sono sempre più numerosi. Sporchi, cattivi, puzzolenti. Se ne stanno agli angoli della strada a elemosinare un pezzo di cibo. E se non glielo dai, ti attaccano. Troppe tragedie. Troppi morti. Troppo sangue italiano versato per la loro inumana ferocia. È ora di finirla».
«In tanti ci hanno provato, signor assessore».
«In tanti ci hanno provato ma io ci riuscirò».
«E come farà, assessore?»
«Sarò più radicale di tutti. Pulizia spietata. Tutti si lasciano fermare dal buonismo, tutti a dire poverini, e la pietà cristiana, e gli occhioni dei piccoli, e bla bla. Io non mi lascerò condizionare da queste debolezze».
«E cosa farà, assessore? Una volta che si trovano sul territorio, non è facile spostarli. Non è facile neanche trovarli, in realtà. E mica possiamo ammazzarli».
«E chi l’ha detto?»
«Assessore!»
«Non si scandalizzi, assistente. Non mi dica che anche lei è una di quelle femminucce che si fermano davanti a un po’ di sangue. Non mi dica che anche lei si commuove per gli occhioni dei piccoli».
«Ma… Non è possibile… non ce lo permetteranno mai.. succederà un casino…».
«La prego di moderare il linguaggio, assistente».
«Mi pare che sarebbe meglio se lei moderasse le proposte. Ha in mente una strage».
«Certo, e lo confermo. Sterminio assoluto. Appena ne vediamo uno per strada, bum! Una bella fucilata. E avanti il prossimo».
«Ma non pensa alle reazioni dei cattolici, delle associazioni, del mondo della politica, di chiunque?»
«Non scherziamo, assistente. Tutti in realtà vogliono farlo. Basta non cedere alle prime pressioni, poi pian piano si convinceranno tutti».
«A me sembra una cosa disumana».
«Lo so, non è facile. Ma io conto su di lei. Anzi, dovrebbe essere proprio lei a dare il buon esempio».
«Vuole che prenda lo schioppo e scenda per strada a fare una carneficina?»
«Perché no?»
«Ma assessore, lei è pazzo».
«Moderi il linguaggio, glielo ripeto. E mi creda, tutti mi appoggeranno alla fine. Tra un mese non ce ne sarà più nessuno libero per strada, e vedremo allora chi riderà».
«Ma alcuni italiani amano…».
«Cazzate, e perdoni la mia scurrilità. Nessuno vuole ammazzare quelli che hanno una cuccia e un padrone. Saranno gli altri a fare una brutta fine».
«Una cuccia e un padrone? Ma come parla? Non le sembra di esagerare?»
«Perché?»
«Vorrà dire una casa e un datore di lavoro»
«Ma cosa dice?»
«Ma cosa dice lei, signor assessore. Il suo linguaggio è inaccettabile. Sembra che stia parlando di bestie, e non di esseri umani».
«Ma io sto parlando di bestie».
«Qua l’unica vera bestia è lei!»
«Stia attento, assistente, io la sbatto fuori di qui a calci. Ma quale datore di lavoro? Ma cosa sta dicendo?»
«Anche se sono immigrati, non dormono in cucce, e non hanno padroni. Sono pur sempre esseri umani».
«Esseri umani? Immigrati? Non la seguo, assistente».
«Ora non faccia il finto tonto, assessore. Ha appena proposto una pulizia etnica».
«Veramente io mi riferivo ai randagi che attaccano i bambini»,
«I randagi?»
«Sì, non li legge i giuornali? Due casi solo a marzo».
«Ah».
«Già».
«C’è stato un piccolo malinteso, assessore. Le porgo le mie scuse».
«Non si preoccupi, assistente. Forse anch’io sarei dovuto essere più esplicito, certo che qui tra cani, neri, cinesi, tasse e federalismo, non ci si capisce più niente».
«Ha proprio ragione, assessore. Allora procediamo con lo sterminio dei cani?»
«Certamente».
«E gli immigrati?»
«Ci penseremo poi».
Sandro

giovedì 2 aprile 2009

In-Visibile















Sono tre i piani di interpretazione da cui partire per seguire il percorso della mostra e cogliere l’IN- VISIBILE attraverso l’immagine, che non è figura. Non mera rappresentazione della realtà per come è e appare sulla retina, ma per come essa viene percepita e vissuta.

Il primo, evidente. Il fotografo sceglie oggetti e scene comuni, quotidiane, banali se non sapessero far propria l’arte di farsi simbolo. Se non sapessero trasformarsi in immagini appunto che richiamano vissuti più intimi. “L’artista raccoglie emozioni che vengono da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma che passa, da una tela di ragno. L’essenziale è creare entusiasmo, è soprattutto di entusiasmo che abbiamo bisogno” (P. Picasso).

Il secondo, più latente. Raccontare il rapporto uomo-donna.

L’incontro di una donna o di un uomo, il coraggio di lasciarsi andare, l’attrazione totale, il gioco dei corpi, il contatto fisico che smuove realtà profonde e fa nascere una ricchezza interna che obbliga l’altro ad andare avanti nella ricerca costante del divenire essere umano. Fino alla separazione inevitabilmente dolorosa, aspra e confusa, che però sa lasciare un segno, indelebile. O forse un’apertura.

È l’uomo, fotografo, che racconta e rivive il passato, senza peccare di nebuloso romanticismo, ma con la libertà della rappresentazione.

L’ultimo, consecutivo. La capacità dell’essere umano di metabolizzare il proprio vissuto e vederlo poi dalla giusta distanza. Saper diventare, liberi dall’inganno dei ricordi e della malinconia, spettatori attenti e non passivi della propria storia. Per questo tutte le foto (scatti reflex) sono state poste sopra lo schermo di un computer e fotografate una seconda volta. Non un gioco grafico, ma un vero e proprio doppio scatto. Il fotografo stesso si pone nella doppia prospettiva di autore-spettatore. Come a dire che il passato metabolizzato, non può immobilizzarci, ma essere fedele sottofondo, ricordandoci da dove veniamo e qual è la nostra avventura.

Una ricerca dunque, di ciò che è visibile solo calandosi dentro ai contesti, ai rapporti affettivi, alla realtà umana.

Testo di Lisa Pacchierotti

Foto di Gabriele Sisti