domenica 15 marzo 2009



Con le dita ancora sporche e unte per colpa di un bel kebab tutto-compreso mi metto a leggere il supplemento di Repubblica, D. Puntuale come l’alitosi post-cipolla e post-misteriose salsine, mi capita sotto agli occhi un articolo che parla del kebab. Di più, lo esalta. Un piccolo miracolo etnico che riesce a sopravvivere contro le multinazionali americane. E osservandomi i pantaloni macchiati di salsa yogurt (la potrebbero fare di un altro colore; è imbarazzante quanto somigli a sperma se ti cade più o meno sul cavallo dei pantaloni), e ammirando il pomodoro che mi si è spiaccicato sul cappotto e la carta unta e bisunta buttata sul tavolo, la cosa mi ha fatto pensare. Perché in effetti è così, il kebab è un vero miracolo allo spiedo, un segno di speranza per la sinistra, un grido di rivolta condito con l’insalatina. Se un tempo si diceva che i berlinesi dell’est, emigrando a ovest, votavano con i loro piedi, nel 2009 sempre più gente vota con i loro stomaci. Basta pensarci un attimo. L’Italia da sempre è un Paese geloso della sua ricchezza culinaria (“come si mangia in Italia non si mangia da nessun’altra parte”, “gli spaghetti come li facciamo noi non li fa nessuno”…). Un nazionalismo che sconfina nel regionalismo, a volte nel campanilismo, per finire addirittura nel nonnismo (“le tagliatelle come quelle che faceva mia nonna non le ho mai più mangiate”). Mettiamoci pure una globalizzazione sempre più arrembante e spietata, un esercito di fast food organizzato militarmente, armato fino ai denti di pubblicità, agganci e abilità commerciale. Poi, in ordine sparso: l’ossessione delle mamme italiane per la pulizia, la nuova moda del fitness, la linea e la dieta, la paura globale per l’islamico. Una vera infinità di condizioni sfavorevoli. Adesso immaginiamo di fare un salto nel tempo, e di tornare a cinque-sei anni fa. Ci portano in un locale con il pavimento sporco, spoglio, senza alcolici, con quattro tavolini pericolanti e quasi tutte le scritte in arabo. Ci fanno vedere un ammasso filiforme di carne molto sospetta, che rotea su uno spiedo arrugginito, e gronda grasso e calorie. A servire, un uomo dalla pelle scura, che parla una lingua incomprensibile, si esprime in un italiano stentato, a volte ha persino la barba lunga: insomma, l’incarnazione perfetta di tutto ciò che ispira paura e razzismo all’italiano medio. Ora vi chiedono di scommettere sulla riuscita o sul fallimento di un simile progetto. Cinque anni fa, chi mai avrebbe puntato un euro su quel panino ciccione e unto? E invece il kebab è vivo e lotta insieme a noi. Zero pubblicità, zero immagine, zero caratteri cool. Ma una diffusione capillare, orari improbabili, spiedo sempre in movimento, un successo imprevedibile e sorprendente. La McDonald’s che continua a sfornare jingle pubblicità e facce fighe in locali impeccabilmente lindi e asettici. Mi immagino il pagliaccio giallo e rosso che convoca gli alti dirigenti, sbatte il pugno sul tavolo, minaccia di licenziare i sottoposti strapagati. Che, poveracci, non sanno che pesci pigliare.
Ma c’è poco da fare, certe cose non sono spiegabili, e la stessa globalizzazione che sfrutta, depreda, aiuta i ricchi e bastona i poveri, ogni tanto riserva anche delle sorprese. E sorride al prodotto meno fico e meno alla moda che si possa immaginare. Il kebab non ha nulla per restare a galla in un mercato globalizzato. E invece non solo sta a galla, ma nuota, ogni tanto tira pure qualche calcio negli stinchi agli squali nordamericani. Migliaia di arabi armati di carne di montone che fanno più male all’espansionismo statunitense di un intero battaglione di mujaheddin.
Gli sfigati del globo che battono le superpotenze sul loro stesso campo, catenaccio e contropiede come nella miglior tradizione del calcio nostrano.
La capolista che perde in casa, il pubblico ammutolito che non riesce a crederci, gli ospiti che si abbracciano felici e increduli in mezzo al campo.
E quindi avanti popolo, che ancora c’è speranza. Non tutto è perduto. Il destino che oggi ci sembra inevitabile può essere cambiato. La ruota gira, e pure lo spiedo del kebab. Non è detta l’ultima parola.


Sandro

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