martedì 31 marzo 2009

La notte

Adesso che ho finito di buttar giù l’ennesimo curriculum della mia vita,

adesso che sono stanca e devo correre dagli amici per cena,

adesso che mi sento con il culo per terra,

ma anche non così disperata da pensare che andrà tutto per forza male,

adesso che vorrei un bicchier d’acqua e poi stappare una bottiglia di vino,

adesso che in casa fa più freddo che fuori,

adesso che vorrei piantare del rosmarino e del basilico nel terrazzo; e mi hanno detto che è il momento migliore,

adesso che guardo il filosofo francese far capolino dalla libreria e osannare la crisi come occasione per liberarci dal pensiero unico e tornare alla complessità,

adesso che ripenso con gusto al signore che ha perso ottocentomilaeuro in borsa,

adesso che mi indispettisco per la vecchia che ha comprato l’appartamento sopra il suo e poi sfrattato gli inquilini perché infastidita dai rumori sopra la sua testolina di cazzo,

adesso che è inaccettabile permettere di tenere vuoti degli appartamenti,

adesso che dovremmo cominciare seriamente a pensare di occupare le case disabitate,

adesso che ricordo Riff Raff di Ken Loach,

adesso che non vedo l’ora di un abbraccio per mandar via l’amarezza,

adesso che inizia quella cosa a cui tengo tanto: la notte.

Lisa

domenica 29 marzo 2009

Nella fattoria (John Updike, ed. Guanda, 2005)




Il 35enne Joey, dopo molti anni, torna a far visita alla vecchia madre nella fattoria di famiglia, in Pennsylvania.
Ben sapendo di dover ancora risolvere una lunga serie di conflitti emotivi che lo legano ai suoi consaguinei, ha la brillante idea di portarsi dietro la seconda moglie e l’innocente figlio di lei.
La storia si dipana nei tre giorni passati in una campagna sperduta che non offre possibilità di animate avventure.
Tutto il testo si gioca dunque sulle difficili interazioni dei quattro personaggi.
La staticità delle azioni, che al più consistono in passeggiate per i campi, improvvisi temporali, brevi lezioni di guida del trattore e raccolta di more, è contrastata dalle complesse dinamiche relazionali.
Una madre vecchia che non risparmia veleno alla donna di suo figlio.
Un uomo ancora indeciso sullo schierarsi dalla parte della madre o liberarsi dai ricatti affettivi di questa.
Una casa intrisa di fotografie del passato e soprammobili polverosi.
Una moglie che stupidamente decide di mettersi in competizione con il fantasma della ex moglie.
La vecchia storia di rivalsa degli affetti.
E fra tutti un povero undicenne abituato a essere marito prematuro di sua madre, finta emancipata, che si rifugia nella protezione del figlio a ogni minimo conflitto con il mondo, con gli uomini e con le suocere.
Idee di manipolazione.
L’invidia nei confronti del nuovo, delle cose che si muovono, crescono e cambiano.
La paralisi di un figlio che doveva restare solo tale, rifiutando il suo divenire uomo.
Il terrore che l’amore per una donna rappresenti una minaccia per l’affetto materno, come se madre e amante avessero gli stessi ruoli.
Le rivalse di unicità.
La possessione bramosa.
I sensi di colpa, inutile modo di giustificare il proprio fallimento.
Le accuse mortificanti atte a generare ulteriori inutili sensi di colpa.
Poi la messa della domenica, il grano falciato e le scuse reciproche, come il vin santo a ripulire la bocca dopo i cantucci. Probabilmente la vecchia megera morirà di li a poco. Di danni ne ha fatti abbastanza.

Updike c’ha messo veramente tutta l’essenza della malattia degli esseri umani in questo romanzo. E lo ha fatto con la sua tipica eleganza narrativa. Senza mai un eccesso, una sbavatura, una caduta di stile. Descrivendo, fra i fiorellini e il profumo di natura, la pochezza di un uomo che perpetuando i suoi conflitti adolescenziali con mamma e papà, riesce a sentirsi uomo solo quando penetra il corpo enorme di una donna.

Lisa

martedì 24 marzo 2009

Ernst Reijseger

La New York University di Firenze ha bisogno di un fotografo per i concerti jazz della scuola.

Ci chiamano. Andiamo.

La scuola si trova in uno dei luoghi più belli di Firenze, un enorme giardino all’italiana dominato dalla villa del XIV secolo, villa La Pietra.

Il cancello di ferro si apre davanti alla mia peugeot scarcassata e scolorita, che stenta a ripartire sulla salita del lungo viale di cipressi.

La vista si spande sul parco di ulivi, c’è da commuoversi e innamorarsi.

Andiamo ad assistere alla lezione di un violoncellista olandese. Ultima tappa della sua tournè italiana dopo Venezia, Padova, Ancona, Pescara.

Ernst Reijseger: mai sentito, dicono che sia bravo.

Come previsto l’atmosfera è formale.

L’olandese accetta la presentazione del direttore e gli applausi dei ragazzi.

Poi si siede e suona.

Incredibile, semplicemente incredibile quello che fa per un’ora e un quarto.

Emette melodie comunque decida di percuotere quel violoncello. Lo pizzica, lo sbatte, lo percuote, lo struscia, con l’arco e con le mani. Si interrompe, fa stridere il sellino sotto le sue membra, riprende il violoncello, adesso come se fosse una chitarra da cui produrre del buon country. È musica e suono in ogni movimento, in ogni interazione tra il musicista e il suo strumento.

Sento un incontrollabile impulso ad applaudire, devo incastrare le mani fra le mie gambe per impedirmelo.

Anche gli americani solo ora si rendono conto di chi hanno di fronte e sono attoniti.

L’olandese va avanti, si ciuccia gli indici, li struscia sul legno della cassa armonica, va a tempo con le corde che libere vibrano in aria.

Si alza a occhi chiusi e vaga per le stanze a cercare migliori acustiche, con il suo strumento sospeso sul collo. Non lo vediamo più, sentiamo solo il suo suono, a volte più forte, poi più tenue.

Ernst urla, canta, prova, improvvisa, sperimenta. Poi torna da noi. Suona.

Ha una morbidezza nel corpo, una libertà nelle espressioni del volto, un sereno lasciarsi andare nei movimenti che solo la creatività gli consente.

Si gode il battere delle mani che finalmente possono ringraziarlo delle emozioni e fa un discorso su come gli studenti debbano liberarsi dai limiti della noia, della ripetizione, delle scali sonore che coatte si assomigliano. Liberarsi dagli insegnamenti piatti, dagli insegnanti piatti (“yours teachers are yuor limit”, chissà se voleva citare i Pink Floyd).

Parla di ritmica: studiarla, osarla, rispettarla, conoscerla, sperimentarla, appiattirla, rovinarla, ricrearla.

Ancora applausi.

Gli studenti ringraziano, annuiscono, ridono.

Gli insegnanti, in evidente imbarazzo, sono segretamente commossi; se solo qualcuno gli avesse impedito di diventare frustrati dalla noia.

Ernst sorride sereno, ammiccando alla compagna, prima fra tutti i suoi ammiratori.

Lei mora, risponde complice, quasi a dire che tutti in quella sala sono innamorati di lui.

A noi permette di fotografarlo nel giardino, fra gli ulivi, mentre solleva con un dito il suo violoncello vecchio di trentanni.

Beviamo vino rosso nel parco, fra uno scatto e l’altro.

Ci piace pensare di aver incontrato un Picasso della musica.

Ci piace pensare di aver assistito all’esibizione di uno stiloso dissacrante delle convenzioni e del vecchio.

Sarà un piacere domani sera vederci per un bicchiere di vino alla Citè, accompagnarlo fra i ponti di Firenze e farsi mostrare le sue foto alle balene.

La fotografia è il suo hobby.

La musica la sua droga eccitante.

Lisa

foto: Antonio Angelucci

Ernst Reijseger in una delle sue performance:

http://www.youtube.com/watch?v=-n5tQ70lkB4

lunedì 16 marzo 2009

Nuovo colpo della Signora Fletcher




Morte improvvisa in una palazzina della periferia di Torino.
La vittima, sessant’anni, soffriva da anni di asma allergica.
I figli però dichiarano che il suo più grave malanno fosse il disturbo paranoide di personalità, aggravato dalla passione sfrenata per la Signora in Giallo, da cui aveva imparato le subdole strategie per smascherare inganni e minacce. Condivideva inoltre con la protagonista della serie televisiva la stessa radicata sospettosità, sfiducia e diffidenza nei confronti degli altri.
Convinta che il mondo intero scaricasse su di lei le polveri dell’emisfero, si era particolarmente accanita con i vicini che a suo parere scuotevano tappeti e sporcizia deliberatamente e intenzionalmente sul suo terrazzo sottostante.
Più volte nel condominio si era assistito a furibonde liti. Le forze dell’ordine spesso erano intervenute a far cessare i violenti litigi. Numerose le denuncie di tentato omicidio esposte dalla vittima.
La stessa scena si è ripetuta ieri mattina, alle dieci, questa volta però a porre fine allo scontro è stata la morte della signora, caduta stecchita con l’ultima imprecazione che le usciva dalla bocca, di fronte alla ragazza sbigottita e inerme che esibiva pazientemente il suo aspirapolvere, come prova della propria innocenza.
Il cuore non ha retto. L’autopsia ha dichiarato che la morte è stata provocata da un infarto acuto del miocardio.
Il coroner ha dichiarato che è stata la rabbia a ucciderla.
La polvere l’avrebbe fatta invecchiare a suon di starnuti.
Le amiche e la fioraia del quartiere raccontano che era tanto una brava donna.
Certo però, aggiungono, da quando era morto il povero marito faceva poco l’amore.

Lisa

domenica 15 marzo 2009



Con le dita ancora sporche e unte per colpa di un bel kebab tutto-compreso mi metto a leggere il supplemento di Repubblica, D. Puntuale come l’alitosi post-cipolla e post-misteriose salsine, mi capita sotto agli occhi un articolo che parla del kebab. Di più, lo esalta. Un piccolo miracolo etnico che riesce a sopravvivere contro le multinazionali americane. E osservandomi i pantaloni macchiati di salsa yogurt (la potrebbero fare di un altro colore; è imbarazzante quanto somigli a sperma se ti cade più o meno sul cavallo dei pantaloni), e ammirando il pomodoro che mi si è spiaccicato sul cappotto e la carta unta e bisunta buttata sul tavolo, la cosa mi ha fatto pensare. Perché in effetti è così, il kebab è un vero miracolo allo spiedo, un segno di speranza per la sinistra, un grido di rivolta condito con l’insalatina. Se un tempo si diceva che i berlinesi dell’est, emigrando a ovest, votavano con i loro piedi, nel 2009 sempre più gente vota con i loro stomaci. Basta pensarci un attimo. L’Italia da sempre è un Paese geloso della sua ricchezza culinaria (“come si mangia in Italia non si mangia da nessun’altra parte”, “gli spaghetti come li facciamo noi non li fa nessuno”…). Un nazionalismo che sconfina nel regionalismo, a volte nel campanilismo, per finire addirittura nel nonnismo (“le tagliatelle come quelle che faceva mia nonna non le ho mai più mangiate”). Mettiamoci pure una globalizzazione sempre più arrembante e spietata, un esercito di fast food organizzato militarmente, armato fino ai denti di pubblicità, agganci e abilità commerciale. Poi, in ordine sparso: l’ossessione delle mamme italiane per la pulizia, la nuova moda del fitness, la linea e la dieta, la paura globale per l’islamico. Una vera infinità di condizioni sfavorevoli. Adesso immaginiamo di fare un salto nel tempo, e di tornare a cinque-sei anni fa. Ci portano in un locale con il pavimento sporco, spoglio, senza alcolici, con quattro tavolini pericolanti e quasi tutte le scritte in arabo. Ci fanno vedere un ammasso filiforme di carne molto sospetta, che rotea su uno spiedo arrugginito, e gronda grasso e calorie. A servire, un uomo dalla pelle scura, che parla una lingua incomprensibile, si esprime in un italiano stentato, a volte ha persino la barba lunga: insomma, l’incarnazione perfetta di tutto ciò che ispira paura e razzismo all’italiano medio. Ora vi chiedono di scommettere sulla riuscita o sul fallimento di un simile progetto. Cinque anni fa, chi mai avrebbe puntato un euro su quel panino ciccione e unto? E invece il kebab è vivo e lotta insieme a noi. Zero pubblicità, zero immagine, zero caratteri cool. Ma una diffusione capillare, orari improbabili, spiedo sempre in movimento, un successo imprevedibile e sorprendente. La McDonald’s che continua a sfornare jingle pubblicità e facce fighe in locali impeccabilmente lindi e asettici. Mi immagino il pagliaccio giallo e rosso che convoca gli alti dirigenti, sbatte il pugno sul tavolo, minaccia di licenziare i sottoposti strapagati. Che, poveracci, non sanno che pesci pigliare.
Ma c’è poco da fare, certe cose non sono spiegabili, e la stessa globalizzazione che sfrutta, depreda, aiuta i ricchi e bastona i poveri, ogni tanto riserva anche delle sorprese. E sorride al prodotto meno fico e meno alla moda che si possa immaginare. Il kebab non ha nulla per restare a galla in un mercato globalizzato. E invece non solo sta a galla, ma nuota, ogni tanto tira pure qualche calcio negli stinchi agli squali nordamericani. Migliaia di arabi armati di carne di montone che fanno più male all’espansionismo statunitense di un intero battaglione di mujaheddin.
Gli sfigati del globo che battono le superpotenze sul loro stesso campo, catenaccio e contropiede come nella miglior tradizione del calcio nostrano.
La capolista che perde in casa, il pubblico ammutolito che non riesce a crederci, gli ospiti che si abbracciano felici e increduli in mezzo al campo.
E quindi avanti popolo, che ancora c’è speranza. Non tutto è perduto. Il destino che oggi ci sembra inevitabile può essere cambiato. La ruota gira, e pure lo spiedo del kebab. Non è detta l’ultima parola.


Sandro

sabato 7 marzo 2009

Jazz Club



La ragazzina con una reflex in mano esibisce le sue natiche sotto il palco.


Contorsionista impeccabile.


Intanto il giovane suonatore, ancora amorfo, soppianta il vecchio che invidioso scalpita per riacquistare la scena. E lo fa con prepotenza. Evidente prepotenza.


Credevo che avrei solo assistito a una jam session.


Invece era un doveroso brindisi. Come il vino versato che, per buon auspicio, si cosparge dietro l'orecchio.


lisa



Foto: Antonio Angelucci